Autonomia lombarda
Quante variabili

Il congresso della Lega, oggi a Parma, dovrebbe essere senza storia: Salvini, vinte le primarie (ha votato solo la metà degli iscritti), controlla il partito in via di mutazione genetica verso la formula lepenista, nonostante la sconfitta di Madame Marine in Francia. La novità potrebbe essere rappresentata da Bossi, che da tempo vive in una solitudine a tratti impietosa, non riconoscendosi più nella sua creatura: vedremo se interviene nel dibattito e se dirà che resta o che se ne va. In questo caso lo strappo sarebbe più che annunciato: il vecchio leone da sempre dissente dalla svolta «nazionale» e dalla formula di una destra frontale e il suo cuore continua a battere per l’invenzione della Padania.

L’eventuale secessione (tutte le rivoluzioni consumano i propri figli) non sarebbe indolore sul versante degli affetti e della nostalgia per la stagione pionieristica, ma la ricaduta politica andrebbe valutata con prudenza proprio per la sua debole prospettiva. Bossi ha chiuso quando il cerchio magico è rotolato sui diamanti e la ramazza della «Notte delle scope» dell’aprile 2012 a Bergamo ha segnato un prima e un dopo.

In una Lega che ha perso il punto d’equilibrio fra la dimensione di lotta e di governo (Bossi più Maroni), si sta però aprendo un’altra partita: quella per l’autonomia della Lombardia, lanciata dal governatore con i voti decisivi dei grillini. La scelta dei tempi del referendum di ottobre da parte di Maroni, sempre più distinto e distante da Salvini, non è neutra e appare per quello che è: una iniziativa politica. Giunge dopo il voto in Francia («La parentesi lepenista è conclusa» aveva detto Bobo) e a ridosso della campagna elettorale per le Regionali. L’appuntamento sembra una sorta di primarie del centrodestra che spiana la strada alla ricandidatura di Maroni, leghista in doppiopetto e interprete di un bossismo senza Bossi che deve consolidare il proprio spazio nel movimento, tanto più che non è tra i vincitori della consultazione fra gli iscritti. E, insieme, c’è il rilancio del richiamo della foresta autonomista, la ragione sociale della vecchia Lega: un sentimento abbandonato da Salvini, che però resta nelle corde e nel linguaggio standard dei lumbard. Un’occasione ghiotta sul piano del consenso, al di là dello stesso perimetro leghista. Si capisce così perché il Pd, proprio a Bergamo, abbia radunato lo stato maggiore del partito, gli amministratori, il ministro Martina e due sottosegretari, delegazioni da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. La reazione dei dem, nel cogliere l’effetto spiazzante della mossa di Maroni, ha due obiettivi: non lasciare alla Lega il monopolio del federalismo, perché in questo caso ci sono obiettive condizioni per chiedere l’autonomia, ma denunciando l’«inutile e dannoso» referendum (costa 46 milioni di euro). «Svelare il bluff di Maroni», è la parola d’ordine che sentiremo spesso. La questione è vecchia di un paio d’anni e si riferisce all’articolo 116 della Costituzione che la riforma costituzionale, bocciata dal referendum, intendeva meglio definire e rafforzare. La norma dice che le Regioni con i bilanci a posto possono chiedere ulteriori forme di autonomia e lo sta facendo l’Emilia Romagna, ma aprendo il negoziato con il governo. La Lega, viceversa, ha forzato sul referendum perché sostiene che le sue richieste sono cadute nel vuoto con tutti gli ultimi quattro governi. In ballo c’è la destinazione del residuo fiscale, la differenza fra quel che i contribuenti lombardi pagano in tasse e ricevono in servizi e in effetti tutto il Nord presenta un saldo positivo: versa molto di più di quanto riceve. Nel nostro caso, secondo il governatore, potrebbero restare in Lombardia 27 miliardi.

Fra un merito stiracchiato in demagogia e un consenso a portata di mano, il problema riguarda l’uso politico di un problema serio qual è il residuo fiscale nella cornice dell’architettura istituzionale. Il Pd, nel riaffermare le ragioni del federalismo differenziato o dell’autonomia rafforzata, ribadisce la disponibilità del governo ad aprire il tavolo, puntando il dito contro la sortita del referendum che ritiene funzionale alla partita in corso nella Lega. Si preannuncia una battaglia campale sulle relazioni Stato-Regioni che sembrava fuori stagione, ma la differenza rispetto al passato è che il Pd accetta la sfida sul terreno più favorevole alla Lega. Sempre che alla fine i conti in casa dei democratici tornino, perché ancora, dopo l’incontro a Bergamo, non s’è capito come il Pd intenda votare e se interpreti il referendum come una specie di primarie regionali in vista delle candidature: questione all’orizzonte e aperta a tante variabili.

© RIPRODUZIONE RISERVATA