Belgistan e rischio
di abituarci al male

Guanti neri sulle mani sinistre, due uomini spingono due anonimi carrelli dentro un aeroporto ignaro. È la foto simbolo. Guanti neri di due terroristi che hanno deciso di nascondere così i detonatori dell’esplosivo che conduce loro nel paradiso di Allah e la morte più feroce in mezzo a una folla inerme. L’Isis ha colpito ancora, e adesso tutti dicono che se l’aspettavano. Ma chi lo ripete in queste ore ha la coda di paglia perché non ha fatto nulla per difendere quei cittadini d’Europa riversi nel loro sangue. I terroristi islamici hanno alzato la posta, hanno fatto un salto di qualità perfino rispetto alle due stragi di Parigi e a quelle in Tunisia e in Mali.

Non più obiettivi senza protezione come un market kosher, la redazione di un giornale, un teatro, un bar, un museo, un albergo di turisti. Questa volta hanno violato un aeroporto e una metropolitana, bersagli sensibili da massima attenzione, luoghi che uno Stato con un minimo di organizzazione dovrebbe blindare e che il Belgio non ha saputo fare. A maggior ragione nei giorni delle retate, degli arresti, dell’iniziato (o solo accennato) smantellamento di cellule del terrore dopo l’arresto di Salah Abdeslam.

L’attentato dei folli kamikaze e dei sanguinari bombaroli non ha colpito solo il cuore dell’Europa, ha colpito l’ombelico, quel Belgistan svuotato di identità che negli ultimi trent’anni è diventato non solo la culla dell’Europa, ma anche del fondamentalismo islamico continentale. Bruxelles, oggi ferita e silenziosa, è una metropoli dai due volti. In centro i palazzi di vetro della Ue riflettono decisionismo e opulenza. E vengono attraversati da un fiume di manager, politici e funzionari con l’auto blu, la cartella di Vuitton e il mito dell’ordine mondiale.

Un pianeta apparentemente felice e moderno, circondato da enormi periferie saudite, dalle quali sono partiti (o dalle quali sono passati) gli attentatori di Parigi e numerosi foreign fighters. Tutto cominciò nel 1975 quando, primo in Europa, re Baldovino fece inserire la religione islamica nel curriculum scolastico in cambio di greggio a buon mercato - erano gli anni dell’austerity - dall’Arabia Saudita. Un dato illuminante: oggi a Bruxelles i cattolici praticanti sono il 12% della popolazione, i musulmani praticanti il 19%. Nel quartiere di Molenbeek, dove la polizia ha individuato i covi dei terroristi, ci sono venti moschee e l’Arabia Saudita dona ogni anno un milione di euro per la loro manutenzione. Significherà poco, ma non significa propriamente nulla, soprattutto se vogliamo contestualizzare le difficoltà sociali e politiche di un piccolo, strategico Paese con responsabilità così grandi sulle spalle.

Ora l’Europa in lacrime dovrà pensare a come proteggere i propri figli e a come reagire. Scelte difficili, ma sempre meno dilazionabili. La Tour Eiffel s’illuminerà dei colori del Belgio, i profili Facebook prenderanno le tonalità della bandiera e non ci faremo mancare neppure il «je suis belge»: tutto molto poetico, ma non può bastare. Non è mai bastato. Oltre al cuore serve la testa. La testa lucida e fredda di un’intelligence europea coordinata in cui le perquisizioni si possano effettuare anche dalle 23 alle 5 di mattina (in Belgio fino a dicembre non era possibile, per non disturbare). E la testa razionale di leader capaci di condurre e vincere la lotta al terrorismo. C’è chi dice che la paura è il nostro destino. «In fondo, nelle scuole elementari di Tel Aviv con gli iPad distribuiscono anche le maschere antigas». Ecco, abbiamo tutti un dovere, quello di non abituarci al terrore.

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