Bergamo e l’ospedale
Un caso di genetica

Quando, nella prima metà degli Anni ’90, gli allora Ospedali Riuniti di Bergamo vennero «regionalizzati» – finendo così nel patrimonio del Pirellone – a storcere il naso fu ben più di un bergamasco. Certo, da una parte si confluiva a pieno titolo nel Sistema sanitario regionale, in grado di garantire all’ospedale i mezzi necessari per continuare ad essere un punto di riferimento nazionale e internazionale.

Dall’altra, però, Bergamo e i bergamaschi vedevano migrare nel «portafoglio» altrui un patrimonio che tutti – ma proprio tutti – hanno contribuito a costituire fin dalla seconda metà del Quattrocento, quando l’allora «Casa Grande dell’Ospedale» – dedicata alla Madonna e a San Marco, in onore di Venezia – nacque sulle ceneri degli undici «ospitali» sparsi per la città, anch’essi peraltro frutto della devozione e della carità popolare.

Non era, è ovvio, una contrarietà che nasceva da una questione puramente economica, dal semplice passaggio di proprietà di una manciata di edifici - seppure di grande pregio architettonico - da un’istituzione a un’altra, quanto dal vedere accantonati, messi da parte, quasi cancellati, tutti quegli sforzi (materiali, ma non solo...) che i bergamaschi avevano compiuto nel corso dei secoli per costruire e far grande – in tutti i sensi – il proprio ospedale. Era una questione culturale, anche «spiccia» se si vuole, ma che urtava una sensibilità popolare largamente diffusa, secondo cui l’ospedale di Bergamo di altri non era se non dei bergamaschi. Punto.

Col passare degli anni quella fastidiosa sensazione di «sottrazione indebita» è venuta meno, per riaffiorare – sottile, ma non meno pervasiva – quando, con la necessità di recuperare fondi per realizzare il «Papa Giovanni XXIII», Regione Lombardia ha messo sul mercato l’area di largo Barozzi, oggi nelle mani della Cassa Depositi e Prestiti, tra qualche anno (così pare) sede di tutti i corsi dell’Accademia della Guardia di Finanza. Scelta quanto mai necessaria – pena l’inesorabile decadimento dell’intero impianto architettonico dei «Riuniti» –, ma poco condivisa dai cittadini, che avrebbero preferito una destinazione pubblica «pura» per un’area così strategica della città.

E a ben vedere, anche i numerosi vincoli che Palazzo Frizzoni ha inserito negli accordi di programma siglati a più riprese per tutelare l’area dei «Riuniti» possono rientrare in quella difesa «morale» che la città ha sempre sentito il dovere di innalzare prontamente ogni qual volta «l’integrità» dell’ospedale veniva messa in discussione. Poi, alla fine, bisogna sempre fare «i conti della serva», e qualcosa bisogna cedere, ma nel caso dell’ospedale la battaglia è sempre stata forte e a tutti i livelli.

Difficile spiegare il perchè, ma l’amore per il proprio ospedale è, per i bergamaschi, una questione genetica, come se un «filamento» in più fosse stato inserito di nascosto nel nostro Dna. Ecco perchè non ha mai stupito che ad ogni «open day» promosso per visitare il cantiere del nuovo ospedale vi abbiano preso parte alcune migliaia di bergamaschi. Ecco perchè non ha mai stupito che i bergamaschi abbiano sempre seguito con un certo distacco le critiche (a volte gratuite) rivolte ai lavori per il nuovo ospedale.

Ecco perchè non stupisce che ancora oggi la generosità nei confronti dell’ospedale di Bergamo sia molto consistente. Certo non ci sono più i grandi mecenati del calibro di Fanny e Tito Legrenzi o di Anna Maria Locatelli in Moroni – veri e propri giganti della generosità nei confronti dell’ospedale –, ma i gesti e la vicinanza sono rimasti gli stessi, così come lo spirito che li anima. Che siano cene o bancarelle, ogni occasione è buona per aiutare un reparto a dotarsi di un qualcosa in più per curare meglio e per far sempre più grande l’ospedale. Nei suoi confronti, come fosse uno di famiglia, i bergamaschi nutrono una fiducia sconfinata. Ma guai a tradirla, cercando di minarne l’eccellenza con scelte di scarsa qualità. Questo – davvero – non sarebbero disposti a perdonarlo.

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