Bersani attendista
Renzi tira dritto

Ha scritto l’ex direttore di «Europa» Stefano Menichini: «Mille volte abbiamo parlato di resa dei conti nel Partito democratico. Quante volte è successo? Mai». E nemmeno ieri è successo, alla direzione convocata da Matteo Renzi per trovare un accordo con la minoranza sulla riforma elettorale e il voto al referendum. Prima ancora che si cominciasse a discutere Bersani ha detto: «È inutile, non siamo d’accordo, al referendum voterò no».

Alla fine, tutta la direzione compatta , sinistra compresa, ha approvato la relazione del segretario. Sipario. La sinistra del Pd ci ha abituato ai penultimatum: si va avanti così, la rottura vera non arriva mai come mai arriva l’accordo pieno. Nel tortuosissimo dibattito interno, Bersani, Cuperlo, Speranza e altri hanno sempre detto: «O si cambia questo punto o votiamo no». Ogni volta hanno avuto un pezzetto di soddisfazione e si sono barcamenati fino al successivo aut aut (che qualcuno malevolo potrebbe anche chiamare ricatto), fino insomma al nuovo penultimatum.

L’ultima minaccia, come è noto, era stata: «O cambiate l’Italicum o al referendum votiamo contro». Ma quando Renzi ha detto: «Va bene, discutiamo, dite voi cosa volete», la risposta è stata: «No, così non va bene, noi votiamo no comunque». Ma ieri – alla «resa dei conti» ancora una volta annunciata – il premier-segretario ha deciso di stanare i suoi avversari, di andare avanti sulla strada del confronto: ha proposto una commissione che discuta di Italicum e prepari le modifiche da portare in Parlamento dopo il referendum cercando una maggioranza con gli altri partiti.

Proposta accettata all’unanimità, come dicevamo. Tanto tuonò che non piovve.

«Se mi costringi me ne vado e mi dimetto pure da deputato», aveva avvertito il mite Cuperlo con voce rotta all’emozione: ha votato a favore pure lui, resta al suo posto. «Ma quando finirà questa giostra, questo continuo girare in tondo?», ha chiesto con la consueta franca brutalità Roberto Giachetti rivolto ai bastian contrari di cui tutti prevedono un giorno la scissione ma che di uscire non hanno alcuna intenzione.

Del resto, è facile comprenderli: quelli che se ne sono andati davvero, i Civati, i Fassina, i D’Attorre, sono spariti nel gorgo, ospitati con qualche insofferenza dentro un partito in crisi come Sel che per loro ha anche cambiato l’insegna dell’ostello e ora si chiama «Sinistra Italiana». Bersani lo sa benissimo che con Cuperlo, Speranza e magari D’Alema finisce anche lui nel dimenticatoio: meglio dunque continuare a lanciare penultimatum, avvertimenti, minacce, nella speranza di contare qualche cosa. E poi, vuoi vedere che magari al referendum vince il «no» e Matteo si azzoppa sul serio, e riescono a cacciarlo una buona volta da casa loro, lui che – primarie o non primarie – è considerato un ospite indesiderato, un inquilino abusivo, un democristiano che pretende di comandare sugli ex comunisti in casa loro… La speranza di Bersani è di durare un secondo in più di Matteo, nel frattempo si impegna a tagliare piano piano tutti i rami su cui è seduto il segretario-premier. Lui non fa come D’Alema che affronta Renzi con tutto il rancore che ha in corpo con la spada sguainata, no, Bersani il temporeggiatore preferisce la tattica del brontolio, della scontentezza che diventa intervista, dichiarazione, sospiro, metafora e battuta. Il metodo cambia ma l’obiettivo è lo stesso: mandare a casa Renzi e il suo governo, e chi s’è visto s’è visto.

Il centrosinistra da sempre si esercita nell’arte sopraffina di malmenare i propri leader: il giovanotto di Rignano sull’Arno non sfugge alla regola. Però è un osso duro, è un fiorentino abile e anche spietato, e non è detto che alla fine non la spunti lui. Se non altro perché dalla sua parte ha anche l’anagrafe.

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