Charlie,un giorno
triste per l’uomo

«Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo». Salvatore Quasimodo scriveva questi versi nel 1946 per condannare gli orrori della Seconda guerra mondiale, ma – più di settant’anni dopo – com’è possibile non provare lo stesso tragico sgomento per la sorte toccata al piccolo Charlie e ai suoi genitori? Dei medici prima, e dei giudici poi, hanno emesso una inappellabile condanna a morte, né più né meno come i tribunali di guerra, ma in tutt’altro contesto. È una società civile quella in cui il diritto di decidere la vita e la morte di un uomo – in questo caso di un bambino, e un bambino malato – è nelle mani di un tribunale? È una società civile quella in cui ad appellarsi al giudice perché qualcuno muoia sia un medico? Oggi è un giorno triste per l’uomo del terzo millennio, oggi – un’altra volta ancora – dobbiamo tutti tornare a dire «Io sono Charlie», contro la morte cieca che uccide degli innocenti. Ricordiamocelo.

Quel che è successo Oltremanica apre scenari di disumanità che la nostra civiltà non può e non deve tollerare. Qui si va oltre l’accanimento terapeutico contestato ai danni del piccolo Charlie. Ormai non è più quello il problema: qui si vuole insinuare il principio che malattia inguaribile e malattia incurabile sono la stessa cosa, e dunque, se non si può guarire, tanto vale sopprimere. Ma non è così, perché tutto ciò che è inguaribile è – al contrario – curabile. Ed è curabile con l’amore, con la compassione, con la pietas che dovrebbe essere radicata nel cuore di ciascuno di noi. Ma il grido di dolore di Quasimodo denuncia oggi come allora un’altra drammatica verità: l’uomo «del nostro tempo» ha dimenticato la solidarietà che lo trattiene dalla violenza. Essere «nella carlinga, con le ali maligne», «dentro il carro di fuoco» anziché sullo sgabello più alto di un tribunale del XXI Secolo non cambia nulla: «T’ho visto, eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta».

La sorte di Charlie era inevitabilmente segnata, ma al suo ultimo respiro si sarebbe dovuti arrivare con l’umana comprensione del dolore di un padre e di una madre destinati a perdere ciò che di più caro hanno due genitori, il frutto del loro amore, il proprio figlio. Londra (e Strasburgo) hanno tenuto fuori da tutta questa vicenda le uniche due cose necessarie che dovevano avere come bussola: l’amore e la pietà. Nemmeno l’ultima richiesta di poter far morire il piccolo Charlie nelle mura di casa è stata accolta, l’ultimo schiaffo che la «legge» ha voluto dare a mamma e papà. Come avranno vissuto le ultime ore del loro piccolo non è umanamente immaginabile, quale dolore, quale angoscia, quale strazio... E lui, il piccolo Charlie, in pochi istanti non avrà più sentito attorno a sé il calore di una carezza, di un bacio sulla fronte, di un dito stretto in una grande mano... Ma di certo, se avesse potuto parlare, avrebbe detto a mamma Connie tutto il suo amore, ricambiando quello in cui è stato «avvolto» fino a ieri.

Alda Merini lo fece scrivendo «Tra le tue braccia»: «C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte, e rimani senza fiato per quanta emozione provi; dove il tempo si ferma e non hai più l’età; quel posto è tra le tue braccia in cui non invecchia il cuore, mentre la mente non smette mai di sognare. Da lì fuggir non potrò poiché la fantasia d’incanto risente il nostro calore e non permetterò mai ch’io possa rinunciare a chi d’amor mi sa far volare». Chissà, forse un giorno Charlie avrebbe usato le stesse parole...

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