Chi semina nel pianto
raccoglie la gioia

Care sorelle e fratelli, celebriamo la festa del nostro patrono nel segno della speranza in un momento in cui ci sembra più difficile e dunque più necessaria.
Nella ricchezza della parola del Signore che abbiamo ascoltato, vorrei riconsegnarvi la preghiera con la quale abbiamo scandito il nostro ascolto: «Chi semina nel pianto raccoglie nella gioia». Quando si piange si è tentati di non seminare più nulla. Chi ha il coraggio di seminare nel momento del pianto, raccoglierà nella gioia.
È il momento, quello che possiamo ricondurre all’immagine del pianto, di tante domande che avvertiamo anche quando non sono espresse. Molte di queste domande sono sotto il segno della paura. È il momento di incalcolabili cambiamenti e per molti, pur forieri di speranze, alimentano incertezze. È il momento per tanti anche di delusioni profondamente sofferte, capaci di alimentare anche risentimenti, rancori, rabbie.
In condizioni come queste la richiesta di sicurezza è assolutamente evidente, ma dobbiamo dirci in questo momento che questa domanda non possiamo separarla da un’altra: la domanda di ragioni per sperare. Altrimenti ci sentiamo esposti al vuoto, oppure ad una emergenza permanente.

Stiamo attraversando e sperimentando un paradosso, quello di una vita che si allunga e di un futuro che si accorcia, come se la speranza si fosse abbreviata. Non riusciamo a sperare troppo lontano. Cosa possiamo dire e cosa possiamo soprattutto fare da cristiani? Quale è il contributo della comunità cristiana in ordine alla speranza?

Innanzitutto il contributo della nostra fede che alimenta questo convincimento: la speranza viene da Dio. Dio è la sorgente della nostra speranza, in Gesù Cristo con la sua morte e la sua risurrezione. Dobbiamo subito dichiarare che la speranza dei cristiani non è e non può essere una testimonianza individuale. La speranza dei cristiani è una speranza universale: abbraccia tutti gli uomini e il destino stesso della creazione. Non speriamo soltanto per noi stessi.

Ci hanno insegnato che la speranza per i cristiani è una virtù teologale, è un dono di Dio. Ci è comunicato nel Battesimo ed è affidato alla nostra fede e alla nostra coscienza. Nel momento in cui questo avviene la speranza diventa un modo di esistere, un modo di essere, uno stile di vita. Per una comunità cristiana, questo «esercizio quotidiano» che scaturisce dal dono di Dio consiste innanzitutto in una memoria generativa.

Cari fratelli e sorelle, a volte di fronte alle incertezze e alle paure siamo tentati di volgerci indietro. Non dobbiamo perdere la memoria, ma non è archeologismo, non è semplicemente il ricordo di fasti passati (ammesso che ce ne siano stati). La nostra è una memoria generativa. Ogni volta che un cristiano fa memoria della storia, fa memoria di Dio e della sua opera e da qui trae le ragioni della sua speranza. «Fate questo in memoria di me». È una comunità cristiana che dice a se stessa, vive in se stessa, per poi seminare nella storia un futuro che continuamente ci supera.

Abbiamo superato «ideologie della speranza» – che tutti abbiamo conosciuto – e si sono disfatte e svuotate. Oggi altre ideologie rappresentano speranze che sembrerebbero a portata di mano. L’ideologia non può mai generare speranza, perché la speranza appartiene ad un futuro che continuamente ci supera.

Come quando si sale in montagna e si arriva a una vetta, eppure si vede un orizzonte ancora più grande di quello che si vedeva prima. L’orizzonte della speranza ci supera continuamente e noi siamo testimoni della bellezza delle conquiste che la nostra intelligenza, le nostre competenze, le nostre responsabilità sono capaci di raggiungere. Nello stesso tempo siamo consapevoli che la speranza è sempre un passo avanti e non la ridurremo mai alla nostra portata.

La speranza si alimenta di profezia, che è la capacità quando si giunge a un traguardo di vederne immediatamente un altro, destabilizzando – se così si può dire – ogni rassicurazione che fermi il nostro cammino.

Un futuro che ci supera significa per noi cristiani, con tutti gli uomini di buona volontà, voler esercitare una vigilanza morale cominciando da noi stessi. Questa vigilanza morale si chiama conversione permanente rispetto ad ogni assolutismo religioso, economico, politico, tecnico-scientifico.

Esercitare quotidianamente la speranza significa coltivare il gusto della primizia. Il cristiano è colui che riconosce le primizie di un mondo che continuamente si rinnova. E trova gusto nel riconoscere la primizia e di coltivarla continuamente. Una primizia può darsi che si spenga, altre invece porteranno frutto. È il gusto di quel regno di Dio che Gesù ha inaugurato: la sua vita ce lo racconta.

Certamente tra queste primizie noi vogliamo vedere le giovani generazioni. Il Santo Padre ha indetto un Sinodo dei Vescovi, tutto orientato alla considerazione delle giovani generazioni. Sono proprio le più grandi e le più belle primizie che l’umanità possa riconoscere. Da cristiani dobbiamo proprio essere i primi a guardare con l’occhio del Signore le giovani generazioni, non per caricarle di attese nostre – a volte proprio improponibili e che noi per primi abbiamo disatteso – ma per aprire loro quel futuro che si rivela sempre inesauribile.

Anche la nostra diocesi dedicherà i prossimi tre anni alla considerazione delle giovani generazioni, sapendo che esse non solo rappresentano il nostro futuro, ma dicono della nostra responsabilità. Come il Papa più volte ha affermato: che i vecchi siano capaci di sognare per aprire un futuro ai più giovani.

Noi dedicheremo tre anni alle giovani generazioni ma a partire dalle nostre comunità, capaci di riconoscere la primizia non solo generazionale ma spirituale rappresentata dai nostri figli. L’esercizio della speranza per un cristiano consiste nell’esercizio di una passione.

Quale è la passione dell’uomo contemporaneo? Siamo capaci, da cristiani, di vivere, di incarnare, di trasmettere una passione? Quella passione che è il frutto della nostra fede, quella passione che diventa addirittura il martirio, cioè la testimonianza suprema. Sant’Alessandro è la passione incarnata, fino alla morte. A noi forse non è chiesto tanto, ma la passione sì. Come facciamo a raccontare speranza senza passione? È una passione che si trasforma nella pazienza. Pazienza ha a che fare con passione e con patire. Pazienza che scaturisce dalla convinzione che la verità ha un senso in se stessa, se non altro perché rompe la breccia di una menzogna generalizzata. La passione ci parla del mistero del chicco di grano che viene seminato e porterà frutto.

Infine, care sorelle e fratelli, l’esercizio della speranza significa alimentare quotidianamente rapporti veri tra le persone. Coltivare rapporti veri tra persone cominciando dalle nostre famiglie che non immaginiamo perfette ma che nemmeno vogliamo condannare all’insegna di una ipocrisia che a volte sembra essere la cifra per interpretare la vita. Non è così. Nelle nostre famiglie ci sono a volte delle fatiche, delle delicatezze, delle incomprensioni, qualche volta anche delle ipocrisie, ma senza le nostre famiglie, senza una famiglia noi chi siamo? Che speranze coltiviamo? Sotto questo profilo – certamente, senza imporlo a nessuno e rispettando le tante scelte possibili – noi riteniamo che la forma del matrimonio possa dire una unione che alimenta una speranza. Una speranza non affidata semplicemente alle nostre forze, una speranza non solo per noi, ma una speranza che veramente diventa costruttiva per l’intera Chiesa e per l’intera comunità.

Penso in modo particolare a quelle relazioni vere che diventano capaci di generare. Cari fratelli e sorelle, c’è una generatività alla quale vogliamo disporre il nostro animo. Non vogliamo diventare sterili, non solo fisicamente. Non possiamo limitarci semplicemente ad una produzione di beni, ma generatività è crescita di vita, anche di nuove generazioni.

Coltivare rapporti veri tra persone, significa coltivare con passione umana e cristiana la grande dimensione dell’educazione. L’educazione non è una formula, ma è una relazione nella quale si cresce da uomini. L’educazione è la nostra forza: la forza di una famiglia, della comunità cristiana, di una società. In questo senso possiamo dire che anche l’attenzione alle nuove presenze nel nostro Paese, sia da lunga data sia più recenti, hanno a che fare con questa dimensione relazionale che prende il volto dell’educazione.

La parola «integrazione» suona a volte non in maniera adeguata. Dobbiamo dire che da italiani abbiamo la possibilità culturale di elaborare delle forme di educazione nelle quali tutti possono riconoscersi cittadini. L’educazione è la nostra forza. Coltivare rapporti veri tra persone, significa voler coltivare aggregazioni forti fatte di responsabilità condivise e non semplicemente emotive o utilitaristiche. Una responsabilità verso un bene che supera l’aggregazione stessa. Coltivare rapporti veri tra persone, significa infine sostenere la promozione di diritti che alimentino la figura dell’uomo non in termini individuali, ma come prossimo l’uno dell’altro.

Cari fratelli e sorelle, Sant’Alessandro è il testimone di questa speranza: il suo martirio ispira questi convincimenti. Il Vescovo monsignor Amadei titolava un’omelia nella festa del Santo Patrono: «Alessandro testimone della speranza». Ve ne leggo un passaggio: «Sant’Alessandro e gli altri modelli di santi sono modelli di speranza perché non si sono rassegnati alla ineluttabilità del male. Non hanno assecondato la tentazione del “è di competenza degli altri” e non hanno ceduto alla tentazione di chi pretende di eliminare subito e con ogni mezzo il male. Hanno creduto alla possibilità di contrapporre il bene al male, il perdono alla violenza, l’amore all’indifferenza. Perciò occorre la tenacia e la pazienza dei martiri e degli altri che non hanno visto il frutto del loro gesto».

Permettete di chiudere con una bella immagine di Papa Francesco che ha dedicato alcune sue catechesi al tema della speranza. Dice il Papa: «C’è stato un tempo [ed è quello anche della nostra Cattedrale] in cui le chiese erano orientate verso est. Si entrava nell’edificio sacro da una porta aperta verso Occidente e, camminando nella navata, ci si dirigeva verso Oriente. L’Oriente è il luogo dove le tenebre vengono vinte dalla prima luce dell’aurora e ci richiama il Cristo, il Sole che sorge dall’alto. Che grazia quando un cristiano diventa veramente un “cristo-foro”, vale a dire “portatore di Gesù” nel mondo! Soprattutto per coloro che stanno attraversando situazioni di lutto, di disperazione, di tenebre e di odio. In futuro, quando si scriverà la storia dei nostri giorni, che si dirà di noi? Che siamo stati capaci di speranza, oppure che abbiamo messo la nostra luce sotto il moggio? Se saremo fedeli al nostro Battesimo, diffonderemo la luce della speranza e potremo trasmettere alle generazioni future ragioni di vita».
(trascrizione da registrazione)

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