Colpi di stato
Colpe di stato

La tensione che nelle ultime ore sembra travolgere la politica non ci lascia indifferenti e ci spinge ad alcune osservazioni.
La richiesta (poi ritirata) di mettere sotto accusa il capo dello Stato, l’ iniziativa di alcuni sindaci di togliere dai loro uffici la fotografia del presidente della Repubblica e la chiamata a raccolta del popolo in una mobilitazione di piazza contro Sergio Mattarella, il tricolore alle finestre, il 2 giugno, festa della Repubblica, sono fatti che nulla hanno di folcloristico: vogliono far passare il concetto che domenica sera al Quirinale sia avvenuto un colpo di Stato.

E ancor di più ci addolora la canea che ne è seguita scatenando sui social i peggiori istinti: non fa onore a nessuno il macabro augurio a Sergio Mattarella di fare la fine del fratello Piersanti (trucidato dalla mafia nel 1980 quando era presidente della Regione siciliana). Stiamo vivendo una delle crisi istituzionali più gravi nella storia della Repubblica e ci inquieta il mantra che le forze politiche emergenti ripetono con malcelata irriverenza e secondo il quale la politica «va svecchiata», occorre puntare sul «nuovo» e i protagonisti di ieri non possono essere i protagonisti di oggi. E siamo inquieti non perché ci sfugga l’ imbolsimento e l’ autoreferenzialità della politica attuale, ma perché è inaccettabile la condanna senza appello della politica tout court in nome dell’ antipolitica.

Il richiamo alla piazza e lo sfregio ai simboli della storia repubblicana nascono da un sentimento culturalmente ostile alla democrazia rappresentativa che si nutre della contrapposizione tra popolo innocente e élite colpevoli. È lo stesso umore (malumore) che dominava all’ indomani della primissima stagione di Tangentopoli quando il furore giustizialista imponeva ai partiti di scegliere candidati vergini di esperienza politica perché, appunto, solo quella purezza era garanzia di un avvenire trasparente. Eppure, domenica, Sergio Mattarella (Mattarella il mite, per non dire il grigio, il vecchio, l’ invisibile, il monaco, l’ anti social e via sbeffeggiando) ha dimostrato con un solo gesto che la trasparenza non è monopolio dell’ ultima generazione. Il suo spariglio ha tolto il velo e restituito centralità agli incontri istituzionali, trasformando il Quirinale in un palazzo di vetro. Non ha spifferato sulfurei retroscena con la malizia di chi sbircia dal buco della serratura, ha raccontato agli italiani i fatti.

Così che ciascuno avesse gli elementi per valutare con la propria testa quel che era accaduto, e cioè capire se nella partita del nuovo governo la voglia di cercare un pretesto per far saltare il banco fosse più forte della volontà di trovare un’ intesa. La verità è che Mattarella ha opposto un’ unica obiezione, ma ne ha fatto un Piave perché a suo giudizio, che è anche il nostro, rischiava di andare in frantumi l’ equilibrio tra i poteri dello Stato. Una vittoria elettorale non giustifica la volontà di piegare le istituzioni. E l’ investitura popolare non dà diritto al disprezzo istituzionale. È vero che la sovranità popolare appartiene al popolo, ma il popolo - la Carta va ricordata per intero - la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Non è vero che qualsiasi potere che non trova origine in un diretto voto popolare gode di una legittimità inferiore rispetto a chi è stato «benedetto» dal consenso popolare. Chi lo pensa pecca di giacobinismo ed questa è la matrice culturale, quasi istintuale che anima nel profondo due forze politiche che hanno provato a cercarsi nella prova di governo dopo essersi prese a sportellate in campagna elettorale.

Il presidente dai capelli bianchi è stato indulgente all’ inizio verso gli strappi alla prassi sulla definizione del programma di governo in termini privatistici prima che il premier venisse incaricato. E indulgente nell’ attesa irrituale della consultazione degli iscritti - nei gazebo e sulla rete - gradita a leader movimentisti. Domenica ha solo esercitato le proprie funzioni. E gli italiani hanno scoperto di avere al Quirinale non un notaio, bensì un presidente nella pienezza e nell’ esercizio dei suoi poteri che ha vigilato su beni costituzionalmente tutelati quali il risparmio degli italiani e gli impegni presi in sede internazionale, che sarebbero stati messi a rischio con la nomina di un economista dichiaratamente no-euro alla guida del ministero dell’ Economia. Insomma, e per andare dritti alla polpa delle cose, non crediamo sia quello di Madame Le Pen il pulpito migliore per denunciare il «colpo di Stato» e la «rapina ai danni del popolo italiano» da parte di «istituzioni illegittime». È solo democrazia. La democrazia che abbiamo vissuto finora, di cui non ci siamo ancora stancati e che vorremmo consegnare ai nostri figli.

© RIPRODUZIONE RISERVATA