Contro Isis i nemici
diventano amici

Quattro anni dopo le grandi dimostrazioni di piazza Tahrir che portarono alla cacciata di Mubarak, l’Egitto è tornato esattamente al punto di partenza: dopo un primo periodo di caos e un anno di disastrosa presidenza di un esponente della Fratellanza Musulmana, i militari hanno ripreso il potere con un golpe nel 2013 e nel 2014 il loro leader, il generale Abdel Fattah el-Sisi, si è fatto confermare alla guida del Paese dagli elettori. All’inizio, l’Occidente democratico ha condannato l’intervento dell’esercito ed Obama è arrivato a tagliare i sussidi che l’America gli concedeva da 30 anni.

El-Sisi ha sfoderato un pugno di ferro che l’ultimo Mubarak neppure si sognava, reprimendo nel sangue ogni tentativo dei Fratelli di rialzare la testa, mettendo al bando anche i liberali protagonisti della «primavera» e facendo pronunciare dai suoi tribunali, dopo processi durati pochi minuti, quasi mille condanne a morte per tradimento (peraltro mai eseguite). Nel frattempo, sta facendo assolvere uno dopo l’altro i collaboratori del deposto Rais, compreso, proprio ieri, quell’ex ministro degli Interni Habib el-Adly che i rivoluzionari volevano mandare sulla forca.

Nonostante tutto ciò, nel giro di un anno il generale-presidente è diventato il nostro più prezioso alleato nella lotta contro l’Isis, nel tentativo di stabilizzazione della Libia e nel mantenimento della convivenza tra il mondo arabo e lo Stato d’Israele. Dopo la decapitazione di 21 egiziani copti da parte del Califfo, Netanyahu gli ha perfino offerto il suo aiuto e il nostro Renzi, preoccupato dello sviluppo della situazione sulla sponda sud del Mediterraneo, ha fiutato il vento ed è stato il primo leader europeo a fargli visita e a mandare al Cairo una imponente delegazione di industriali per studiare nuove forme di collaborazione economica.

Il generale ha prontamente restituito la visita, mettendo le basi per un rapporto tra i due Paesi che è sempre stato importante, ma può diventare anche migliore. Grazie alla abilità di El-Sisi nel coniugare stabilità politica e sviluppo economico (e nel farsi finanziare l’imponente deficit pubblico dalle monarchie del Golfo) l’Egitto ha infatti ripreso a crescere a un buon 3,5% l’anno, ha di nuovo attirato 9 milioni di turisti e promette di tornare la potenza egemone della regione. Nonostante la spietata soppressione degli oppositori, El-Sisi gode di ampi consensi nella popolazione, c he saranno sicuramente confermati dalle elezioni legislative (non proprio democratiche, sostengono i suoi critici) del prossimo marzo. Perfino Obama ha dovuto ricredersi sul suo conto: forse per salvare la faccia, per lui è stata riesumata una vecchia battuta attribuita a Kissinger quando gli venivano rimproverati gli amichevoli rapporti intrattenuti in funzione antisovietica con dittatori africani e sudamericani: «Saranno anche figli di p., ma sono i nostri figli di p.».

Agli occhi degli occidentali, il più grande merito di El-Sisi è stato il discorso che ha rivolto circa un mese fa a una assemblea di imam, per invitarli a sconfessare lo jihadismo e incitare l’Islam moderato a ribellarsi agli estremismi. La frase che ha destato più scalpore è stata: «1,6 miliardi di uomini (quanti sono i musulmani nel mondo-ndr) devono smettere di considerare gli altri 7 miliardi come nemici da eliminare». Con quell’intervento, e il successivo bombardamento di Derna per reazione alla decapitazione dei 21 copti, egli è diventato uno dei grandi nemici dell’Isis, che lo ha definito «criminale terrorista e assassino» e purtroppo dispone di una potente «filiale» nel Sinai di cui l’esercito egiziano non riesce a venire a capo. Comunque, con tutti i suoi difetti, il presidente egiziano si è trasformato in breve, da pariah che era, in uno dei baluardi contro il caos mediorientale.

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