Crisi nel mondo
Mappa del male

La sensazione di vivere in un mondo anarchico è oggi nota anche a noi occidentali. Alla caduta del Muro e alla fine del contenzioso fra i due Blocchi, comunista e capitalista, non è mai subentrato un nuovo ordine mondiale. Ci sono grandi potenze (Usa, Russia e Cina) e potenze regionali ma il controllo dei territori non è più saldo come quando i due contendenti avevano irreggimentato intere regioni. A nessuno conveniva una guerra che potesse infettare il precario equilibrio (ma pur sempre equilibrio) sull’asse Washington-Mosca. Ciò non impedì i lunghi conflitti in Indocina e Vietnam o la débâcle sovietica in Afghanistan.

Negli anni ’90, all’indomani della caduta del Muro, si sono registrate 57 guerre in 45 Paesi. Il 90% dei conflitti dopo la Seconda guerra mondiale ha avuto luogo in Stati poveri e il 90% delle vittime erano civili, ribaltando la percentuale della Prima quando a morire nel 90% dei casi furono militari. Secondo un recente rapporto della Caritas italiana, nel 2017 i conflitti sono stati 378, tra cui 186 crisi violente e 20 guerre ad alta intensità. Un contributo decisivo a queste contese arriva dal commercio di armi: l’anno scorso la spesa complessiva ha raggiunto il record dopo la Seconda guerra mondiale, con una spesa di 1.739 miliardi di dollari. La classifica dei produttori ed esportatori è guidata dagli Stati Uniti, seguiti da Russia, Francia, Germania e Cina. L’Italia è al decimo posto, con un export di 10 miliardi, il 57% verso Paesi non aderenti all’Unione europea o alla Nato: vi figurano Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, in violazione alla legge 185/90. Si tratta infatti di Stati impegnati nello spaventoso conflitto in Yemen (dove in tre anni 85 mila bambini sono morti di fame o malattia e 1,5 milioni sono sfollati).

Ma il rapporto Caritas registra anche la copertura mediatica delle crisi nel mondo, generalmente bassa. L’esito di questa dimenticanza è in un sondaggio: il 24% degli italiani non ha saputo indicare nemmeno un conflitto in corso, il 3% ne ha indicato uno in Africa mentre la Siria è ricordata dal 52% degli intervistati. La fonte principale di informazione per gli adulti è la tv (47%), per i giovani internet (49).

In questi giorni è stato pubblicato anche il report dell’International crisis group che indica le aree del mondo più a rischio di destabilizzazione, escludendo quelle da anni alla ricerca di pace (Siria, Libia, Iraq e Israele-Palestina): sono Venezuela, alcuni Paesi dell’Africa (Burkina Faso, Repubblica Centrafricana e Sud Sudan), dell’Asia (Myanmar e Pakistan) e del Medio Oriente (in particolare Iran e Yemen). A questi ne vanno aggiunti due che si trovano a noi vicine: Ucraina e Tunisia. Si tratta di Stati che sono attraversati da tensioni altissime o già in guerra. Ci sono anche segnali di speranza. In Pakistan lo è la liberazione di Asia Bibi, la mamma cristiana di quattro figli condannata ingiustamente a morte per blasfemia nel 2010. La scarcerazione definitiva ha scatenato gli islamisti, autori di dimostrazioni violente. Ma oltre 500 imam hanno chiesto la liberazione della donna, firmando anche la «Dichiarazione di Islamabad» contro il terrorismo islamista, le violenze compiute in nome della religione e le «fatwa» (editti) emanate dagli ulema radicali. A conferma che l’islam non è un monolite di esaltatati, ma ha anche un’anima aperta e dialogante.

Crisi e conflitti generano poi milioni di fuggiaschi. Il tratto di mare tra Gibuti e lo Yemen è «l’altro Mediterraneo» di cui non si parla. Tre giorni fa almeno 52 migranti sono morti in un naufragio. La maggioranza di rifugiati e sfollati non è in Europa ma nel Sud del mondo. I Paesi dell’America Latina e i Caraibi danno protezione a 2,4 milioni di venezuelani scappati dalla povertà generata dal presidente Nicolas Maduro. C’è poi il capitolo penoso dei bambini: 34 milioni vivono in situazioni di conflitto, privati di acqua sicura, nutrizione adeguata, assistenza medica e istruzione.

In alcune delle crisi ricordate si fa appello all’Unione europea, a un suo ruolo attivo di mediatore. C’è chi guarda ai 27 Stati con stima e speranza, nonostante siano privi di una politica estera comune e attraversati a loro volta da una crisi d’identità, minacciata da sovranismi e incapacità di autoriformarsi.

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