Da Putin ed Erdogan
messaggio all’Europa

L’incontro a San Pietroburgo tra Recep Erdogan e Vladimir Putin non può essere derubricato all’alleanza forzata tra i leader di due Paesi in crisi o tagliati fuori dal salotto delle nazioni «civili», in definitiva dal circolo dei Paesi che si riconoscono nell’orbita e nel modello degli Stati Uniti. Non dobbiamo infatti dimenticare che Russia e Turchia hanno coscientemente scelto, attraverso i loro presidenti, di uscire da quel salotto. La Russia, dopo il rivolgimento che ha portato l’Ucraina fuori dalla sua orbita, avrebbe potuto far buon viso a cattivo gioco, come aveva sempre fatto. Non ha voluto. Anzi: ha cominciato a giocare pesante. E la stessa cosa ha fatto con la Siria. Scelte che hanno regalato a Putin il record dei consensi in patria. Anche Erdogan, dopo il fallito colpo di Stato, ha scelto di mettersi in urto con gli Usa (accusati di proteggere gli ideatori del golpe) e con la Ue. E dopo le repressioni raccoglie un grande consenso popolare.

Il che vuol dire che la clamorosa riappacificazione di due presidenti che per molti mesi si sono insultati e minacciati in ogni modo, è un fatto da prendere sul serio. Com’è ovvio, nella svolta diplomatica hanno giocato un ruolo gli interessi materiali. Prima della crisi causata dall’abbattimento del caccia russo lungo il confine della Turchia (novembre 2015), Mosca e Ankara avevano rapporti più che cordiali e la comune ambizione di raggiungere in breve tempo un interscambio commerciale da 100 miliardi di dollari l’anno. Le esportazioni di prodotti agricoli verso la Russia aiutavano la Turchia a mantenere quel 25% della popolazione attiva che ancora vive del lavoro dei campi. E le intese sull’energia nucleare e il commercio del gas portavano risorse preziose ai turchi e sbocchi commerciali non meno importanti ai russi.

Più che una convenienza d’occasione, quindi, si trattava di una vera partnership strategica. La guerra in Siria era poi intervenuta, si presume con una certa soddisfazione della Casa Bianca e di Obama, a turbare questa convergenza. Ed è proprio dalla Siria che bisogna ripartire per capire quanto accade. Dopo cinque anni di guerra in cui Russia e Turchia hanno fatto di tutto per far prevalere le proprie tesi, lo stallo è evidente. Erdogan voleva cacciare Assad e non ci è riuscito. Putin voleva salvare Assad ma a che prezzo, e a quale scopo? I due presidenti l’hanno capito e hanno innestato la marcia indietro. Sul tavolo, per loro, c’è un puzzle di cui la Siria è solo una tessera. Hanno la pressione americana, fortissima sul Mar Nero e in Medio Oriente. Hanno la potenza dei petrodollari del Golfo Persico con cui confrontarsi. Hanno l’esigenza di custodire un rapporto con la Cina che è ormai decisivo sia per l’una sia per l’altra economia. Tutte queste questioni, se affrontate l’un contro l’altro, sono problemi. Se Putin ed Erdogan le affrontano insieme, se non da alleati almeno da non nemici, possono diventare opportunità. E possono persino far ipotizzare la costituzione di una grande area politico-commerciale che dal blocco Russia-Turchia-Iran lanci un ponte verso Est, su tutta l’Asia centrale fino alla Cina. Cosa che ovviamente preoccuperebbe non poco gli Usa. Sono ipotesi complesse, futuribili. Da seguire, però, perché mettono pressione non tanto agli Usa, che hanno comunque una visione planetaria dei problemi, quanto all’Europa.

Se il Cremlino trovasse mercati alternativi per le proprie risorse energetiche e strade percorribili per commerciarle a Est, che cosa resterebbe delle sanzioni, dell’Ucraina, di tutto quanto è stato fatto finora per togliere fiato e spazio di manovra alla Russia sul confine Ovest? Non è un caso se Putin ed Erdogan hanno subito ripreso a parlare di Turkish Stream, il gasdotto che dovrebbe passare sotto il Mar Nero e che era chiamato a sostituire South Stream, il gasdotto che la Ue fece saltare come risposta alla riannessione russa della Crimea e al conflitto nel Donbass. E lo stesso Erdogan, di nuovo non a caso, ha ricominciato a martellare la Ue, accusandola di non rispettare il suo Paese e gli accordi presi.

Erdogan vuole i soldi che la Ue gli ha promesso perché gestisse i flussi dei migranti, circa tre milioni di persone che potrebbero ancora riversarsi verso i Balcani e l’Europa del Nord. Vuole che l’ingresso in Europa per i turchi sia libero, senza visti. E, in definitiva, vuole che la Turchia entri nella Ue, lo faccia in tempi rapidi e dalla porta principale. L’Europa gli risponde con un’arma poco potente. Se reintroduci la pena di morte, dice Bruxelles, non entri nella Ue. Erdogan, però, potrebbe controfirmare una legge del Parlamento, per accontentare l’elettorato, e poi firmare un atto di clemenza verso i condannati.

È difficile che il presidente turco ricorra all’arma totale dei profughi contro l’Europa. Sarebbe una strada senza ritorno. Minaccerà, pretenderà i soldi, ma starà ai patti. Però il messaggio è chiaro: non siete voi, e solo voi, a dettare le regole. Guarda caso, lo stesso messaggio che da ancor più tempo lancia Putin.

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