Decreto dignità
Lavoro e tutele

Il Parlamento ha definitivamente convertito in legge, non senza importanti modifiche, il cosiddetto decreto Dignità, il primo provvedimento che il «governo del cambiamento» ha voluto mettere in campo in tema di lavoro. È ormai un classico: ad ogni inizio di legislatura ogni nuovo governo attua da subito un primo provvedimento con il quale regolare e indirizzare il mercato del lavoro. Lo hanno fatto i governi precedenti, lo ha ripetuto il governo gialloverde, anche in seguito ad una spinta concorrenza tra le sue due anime politiche. Peccato che il mercato del lavoro sia sempre più costituito da un modo di produrre e da una economia in grande trasformazione, diventando sempre più refrattario a puri interventi legislativi. Intendiamoci: l’aver voluto battezzare questo provvedimento con il termine «dignità», parola che indica un alto valore morale, la dice tutta sull’esigenza diffusa e sentita di ridare senso al lavoro oggi. È un segnale che chiunque abbia a cuore la promozione della persona che lavora deve cogliere e rielaborare. In Italia, e ancor più in Lombardia e nella terra bergamasca, l’occupazione ha raggiunto livelli ben superiori a quelli pre-crisi.

Ma il senso di insicurezza sociale e di incertezza che oggi vive chi lavora non ha fatto altro che estendersi. I numeri non dicono tutto. Riaccoppiare l’avere un lavoro con la sicurezza sociale è oggi prioritario e dovrebbe spingere chi governa e parti sociali ad un maggiore confronto e innovazione. Sapendo che il lavoro si presenta sotto forme sempre più diverse e frastagliate: renderlo quindi flessibile ma al tempo stesso tutelato e non precario è la sfida dei nostri tempi che ancora non abbiamo vinto.

Ma siamo di fronte ad una legge destinata a ridare piena dignità al lavoro che oggi incontriamo? Lo vedremo. Tutti attendiamo le prossime analisi dell’Istat destinate a misurare se l’uso (e anche l’abuso) dei contratti a termine possa registrare una seria frenata a favore del contratto a tempo indeterminato. Nell’attesa qualche dubbio e domanda irrisolta rimane. Il governo non interviene per nulla sulle forme di precariato maggiormente indignitose, con le quali troppi giovani e italiani oggi incontrano il lavoro: false cooperative in cui si è solo sottopagati, finti tirocini a 400 euro al mese creati per sostituire lavoro vero, partite Iva finte costituiscono anomalie fin troppo diffuse e che avrebbero richiesto serie correzioni. Per non parlare del lavoro irregolare e nero, che continua a costituire sempre secondo l’Istat il 16% del totale dell’occupazione: un vero e proprio «buco nero» della nostra economia che nemmeno la crisi ha scalfito e che nessuna politica si propone di aggredire.

Il decreto ha voluto concentrarsi stringendo l’uso dei contratti a termine e intervenendo pesantemente sulla somministrazione, i contratti di lavoro più tutelanti per chi non ha un posto fisso. Una stretta sull’abuso dei contratti a termine non deve di per sé inquietare nessuno. In tutta Europa abbiamo durate massime attorno ai 24 mesi e non ai 36, 3 o 4 rinnovi al massimo ed esistono causali che ne giustifichino l’utilizzo. Quello che lascia perplessi, ma ripeto saranno i numeri dei prossimi mesi a rendere giustizia, è la velleitaria idea che basta «stringere» sui contratti a termine per spingere le imprese ad assumere a tempo indeterminato. Regolare il lavoro a prescindere dall’economia reale è un salto indietro che non parla alla realtà e che non ci è più permesso. Se poi nel frattempo si creano 4 regimi normativi diversi in 5 mesi e si reintroducono i voucher nel turismo e in agricoltura non si fa altro che fornire segnali contraddittori a chi fa impresa e a chi lavora.

Mentre tutti i commentatori sono impegnati nel misurare la possibile efficacia della norma, credo sia giusto per una volta mettersi nei panni di chi oggi ha un contratto a tempo determinato. Cosa guadagna concretamente dal decreto dignità? Non un maggiore sostegno nelle transizioni lavorative, non un voucher formativo nel caso di mancata conferma per rafforzare le competenze, non un servizio di politica attiva per facilitare una ricollocazione, non un welfare di sostegno per le persone che lavorano in modo non continuativo, ovvero le tutele di cui avrebbe davvero bisogno. Il decreto non fa altro che anticipare a massimo 24 mesi (ma per quasi tutti sarà dopo 12 mesi) la «lotteria dei calci di rigore» tra possibile assunzione a tempo indeterminato o cessazione del contratto. Lasciando di nuovo chi lavora da solo e probabilmente aumentando solo il tasso di rotazione di chi lavora a termine. Ammettiamolo, non è un bel modo di far apprezzare ai nostri giovani cosa è la dignità.

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