Democrazia diretta
e libero mercato

Lo scenario politico odierno in molti Paesi occidentali si caratterizza per la contrapposizione tra il populismo di chi evoca la democrazia diretta e l’anti populismo di chi rimane sostenitore della democrazia rappresentativa. Negli ultimi anni il populismo ha trovato alimento nella crisi dei partiti politici, nella corruzione delle classi dirigenti, nell’aumento delle povertà e nei tanti problemi economico-sociali determinati dai grandi flussi migratori. Le prime radici di sentimenti populisti affondano nella rivoluzione francese, specialmente nelle fazioni giacobine, che si rifacevano alle idee di Jean Jacques Rousseau. Il Novecento, poi, è stato caratterizzato da importanti fenomeni politici del Sudamerica come il peronismo, il bolivarismo e il chavismo, che facevano riferimento primario alla volontà popolare attraverso i plebisciti. Nelle sue varie esperienze il populismo si è prevalentemente ispirato al socialismo e, solo in pochi casi, ha dato vita a movimenti autoritari di destra.

I populisti di oggi, però, non sono né di destra né di sinistra. Contrastano le varie forme di democrazia rappresentativa perché accettano come unica legittimazione per l’esercizio del potere politico la volontà espressa direttamente dal popolo, anche quella che emerge attraverso moderni mezzi di comunicazione come internet e tutti i suoi potentissimi derivati. Combattono il libero mercato e la globalizzazione, che ritengono causa dell’incremento delle povertà e delle diseguaglianze sociali, e propongono in alternativa varie forme di protezionismo nazionalista. I populisti dell’ultima ora sembrano aver trovato il proprio «guru» in Donald Trump, che nel prossimo gennaio sarà nominato presidente degli Usa. Le sue dirompenti dichiarazioni nel corso della campagna elettorale, il suo protezionismo e i suoi ammiccamenti xenofobi hanno fatto la gioia dei populisti di tutto il mondo, compresi il nostri Salvini e, in parte, Grillo.

Rispetto alla campagna elettorale, però, Trump ha già fatto marcia indietro proprio su aspetti che avevano più esaltato il suo elettorato. Così, ha dichiarato che non porterà Hillary Clinton davanti ai tribunali, che non stravolgerà la riforma sanitaria di Obama e che alzerà, solo in parte, il famoso lungo muro con il Messico. Anche contro i cambiamenti climatici deciderà, probabilmente, di non mettersi per traverso, visto che su questi temi si è recentemente consultato con Al Gore, giudicato uno dei più determinati ambientalisti al mondo. Solo sulla battaglia contro la liberalizzazione del commercio, che è l’anima della globalizzazione, Trump non sembra disposto a fare passi indietro. Ha già annunciato l’abolizione del Trattato commerciale con i Paesi del Pacifico e la sostanziale revisione di quelli con il Canada, con il Messico e con l’Europa, quest’ultimo ancora in corso di approvazione. La sua idea è di dare slancio all’economia americana introducendo dazi che, nell’esperienza storica hanno portato nel tempo all’uscita dal mercato di molte attività produttive per carenza di innovazioni e ad un aumento dei costi di produzione, con conseguente contrazione dei salari.

Non va dimenticato, inoltre, che le politiche protezionistiche dell’economia americana ed europea dell’inizio del secolo scorso sono state all’origine di sanguinose guerre che hanno messo in ginocchio molti Paesi, sia sul piano economico che sociale. Queste condizioni, acuite dalla crisi economica del 1929, hanno successivamente accentuato scelte illiberali di natura politica ed economica, che sono state all’origine di fenomeni come il nazismo e il fascismo. Solo dopo la Seconda guerra mondiale ha prevalso negli Usa la filosofia del multilateralismo, secondo le linee guida stabilite nella conferenza di Bretton Woods del 1944, che ha segnato la fine dell’isolazionismo americano e del predominio del dollaro sulle altre valute. Proprio contro questa scelta di fondo, Trump, almeno nei suoi annunci, vuole muoversi per rifondare la «Grande America».

Queste esasperazioni nazionalistiche e divisive, il cosiddetto «trampismo» stanno ahimè prendendo piede in molti Paesi del mondo occidentale di consolidata tradizione liberale. Siamo ormai al paradosso per cui occorre fare riferimento alla Cina - ancora governata da un regime comunista e illiberale - per trovare un Paese disposto a difendere, senza alcuna titubanza, le ragioni del libero mercato.

Resta il fatto, però, che gli Usa sono stati gli antesignani del libero mercato e che sul libero mercato Donald Trump ha fatto le proprie gigantesche fortune. Non penso possa essersene dimenticato.

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