Depressione demografica
L’eccezione a rischio

Meno 382 nascite nel 2017 rispetto all’anno precedente in provincia di Bergamo. Non è una sorpresa perché da tanto tempo ormai in Italia siamo abituati a dati come questi che fotografano una vera e propria «depressione» demografica. I numeri assoluti in questi anni sono stati salvati dal flusso migratorio che ha fatto sì, per fare un esempio, che nel territorio bergamasco sia aumentata anche in periodi di crisi. C’è stata una stagione in cui i nuovi arrivati, con la loro propensione a fare figli, avevano anche compensato il declino delle nascite da genitori italiani.

Ma ora, non solo a Bergamo, anche le famiglie straniere sembrano piano piano allinearsi alle medie nostrane. È così che si spiega il dato sulle nascite nel 2017.

I numeri di Bergamo non sono diversi da quello del resto del Paese. Ma simbolicamente hanno un significato diverso e per questo devono far riflettere. C’è innanzitutto una ragione storica e culturale. Questo è un territorio in cui la famiglia ha sempre avuto una centralità sia valoriale che economica. La famiglia ha rappresentato una ricchezza, un perno dell’organizzazione sociale. Non è un territorio attraversato da stili di vita culturalmente ostili all’idea di famiglia, come si può pensare per grandi realtà urbane quali la vicina Milano. Qui nessuno ha mai pensato che la struttura della famiglia con figli, con i suoi tempi e i suoi obblighi, fosse ostacolo allo sviluppo e all’ingresso nella modernità. Anzi la storia e il presente di Bergamo ci dicono che il nucleo domestico è il fondamento che rende solido e dinamico il tessuto economico e produttivo.

E qui si viene al secondo punto di riflessione. Perché se ci sono zone in Italia in cui la crisi e l’impoverimento hanno diffuso una più che comprensibile paura nelle nuove generazioni, per Bergamo e il suo territorio le cose stanno diversamente. Il tasso di disoccupazione è nettamente più basso rispetto alla media italiana, e anche quella giovanile non ha le dimensioni drammatiche del resto del Paese. Quindi, pur nelle incertezze che sono caratteristiche di questa stagione della storia, per un ragazzo e una ragazza ci sono meno rischi nel costruire una famiglia. Il contesto garantisce più certezze che incognite. Perché allora questa positività economica e sociale che contrassegna il territorio bergamasco non ha un riflesso nel modo con cui i giovani immaginano la loro vita e il loro futuro? Perché si è persa questa consapevolezza così radicata nella storia e così evidente a suo modo anche nel presente, che la struttura sociale è fattore vincente anche a livello economico?

Certamente tante volte si sono giustamente sottolineate le irresponsabilità gravissime di una politica che in Italia non ha mai difeso concretamente la famiglia, al di là di dichiarazioni di principio che lasciano il tempo che trovano. Una politica che oltretutto è via via rimasta prigioniera dell’invecchiamento del Paese, in quanto per accaparrarsi il consenso elettorale ha badato a coltivare gli interessi della popolazione percentualmente dominante: cioè quella anziana. In questo modo non si sono mai fatte politiche per stimolare i giovani (così poco incidenti in termini di voti) a costruire un futuro per se stessi e per il Paese. Ma se questo vale per l’Italia, non deve essere alibi per un territorio come quello di Bergamo, che ha invece in sé la cultura e le risorse per dimostrare che l’Italia può uscire da questa «depressione» demografica. È un lavoro culturale che ci aspetta. Dimostrare che, pur immersi in questa modernità globalizzata, la famiglia è un fattore vincente di sviluppo a 360 gradi. Uno sviluppo oltretutto anche più umano e meno asservito alle grandi centrali dell’economia e della finanza.

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