Diarchia leghista
Milano decisiva

La sua segreteria era nata dal seguente accordo: Matteo Salvini alla guida del partito, Flavio Tosi futuro candidato premier. Sotto la firma di Roberto Maroni. Eravamo a dicembre 2013 e il congresso del Carroccio sancì questo patto. Dopo un anno tutto è cambiato. La Lega salviniana, prima alle Europee e poi alle Regionali, è lievitata fino al 15 per cento, quota record mai toccata nemmeno ai tempi (1996) della secessione con la marcia sul Po.

Milioni di voti (anche dal Centro e dal Sud) che hanno legittimato un azzeramento del patto, ma soprattutto (ecco il vero dato politico) consacrato la leadership del giovane segretario in vista delle elezioni politiche del 2018. Il sindaco di Verona, non più candidato premier leghista in pectore, è uscito dalla Lega e si è candidato in Veneto con un risultato deludente e il trionfo di Luca Zaia.

Il 15 per cento leghista ha impresso un marchio tutto salviniano al movimento, autorizzando e accentrando il massimo dei poteri nelle mani del giovane segretario, abilitato a decidere da solo tattica e strategia; un distinguo doveroso perché all’interno del Carroccio ci sono due scuole di pensiero. I critici propendono per la prima ipotesi, i giovani per la seconda. In attesa di capire chi ha ragione (lo sapremo alle amministrative della prossima primavera), quanto abbiamo descritto da quel dicembre 2013 ai giorni nostri ha creato quella che i media hanno definito la «diarchia» Salvini-Maroni. Perché il segretario, forte dei voti, dei sondaggi, delle maratone televisive e dei bagni di folla, si sente legittimato a decidere anche da solo le alleanze nell’alveo del centrodestra. Con i toni che gli piacciono di più e che gli hanno permesso non solo il sorpasso su Forza Italia ma anche di essere il leader più riconosciuto dell’opposizione renziana.

Tutto ciò era impensabile nei giorni della stipula del patto 2013. Una realtà che rende non sempre semplice, ad esempio, la navigazione della giunta lombarda dove Ncd (principale bersaglio del segretario) ha i voti per garantire la governabilità della Regione a guida leghista. Ed è qui che è decollata la diarchia, ma non solo. Oltre a salvaguardare la sua Giunta, Roberto Maroni si sta sforzando di mantenere aperti i collegamenti con le altre forze di centrodestra a livello nazionale. Una funzione che può essere interpretata dalla pancia leghista come alternativa alla scelta di Matteo Salvini di non farsi condizionare dagli alleati, anzi di dettarne la linea. A questa teoria c’è chi risponde che solo con la trattativa si può tornare a riunire il centrodestra come forza di governo a Roma.

Chiariti i fatti e le posizioni personali che hanno autorizzato i media a parlare di diarchia, c’è poi una domanda che ogni giorno si fanno non solo i leghisti ma anche tutti i partiti della ex Casa della Libertà: dove vuole andare (politicamente) Matteo Salvini? Vuol fare il premier o gli basta essere riconosciuto il vero capo dell’opposizione? Un interrogativo che avrà presto una risposta, quando lui e Silvio Berlusconi sceglieranno il candidato sindaco di Milano. Se il segretario deciderà di correre per Palazzo Marino, tutto risolto. Ma la vera risposta alla domanda politica è sapere quali saranno le caratteristiche che per Matteo Salvini dovrà avere il candidato e con chi stringerà un’alleanza. Con Milano dunque potrebbe finire la fase della diarchia. Oppure lievitare con tutte le conseguenze.

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