Educazione civica
maggiore democrazia

Quando si discute di democrazia torna sempre alla mente un celebre aforisma di Winston Churchill: «È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora». Questa concezione relativistica dei regimi democratici quali «male minore» è presente in molte analisi e teorie di storici e filosofi, da Machiavelli a Weber e Schumpeter, fino ai giorni nostri con il compianto Giovanni Sartori. Di recente, il filosofo americano James Brennan ha portato alle estreme conseguenze tali analisi con un libro dal titolo «Contro la democrazia» (Against Democracy - Princeton Press, 2016), che è oggi oggetto di un dibattito pubblico in tutto il mondo occidentale.

Il volume, che nella traduzione italiana reca la presentazione del costituzionalista Sabino Cassese, mette sul banco degli imputati tutte le nostre convinzioni, giungendo ad un’inappellabile sentenza: «Se la democrazia va giudicata dai suoi risultati, ha completamente fallito». Secondo Brennan, infatti, non è stata in grado di garantire a tutti i cittadini il diritto di essere guidati da leader competenti e ha visto molti elettori compiere le loro scelte sulla base dell’emozione, del rancore, talvolta della più completa ignoranza. Brennan indirizza le sue critiche sia alla democrazia rappresentativa che a quella deliberativa, dichiarando che in entrambe «la partecipazione politica rende le persone peggiori, più irrazionali, arrabbiate e cariche di pregiudizi».

Questa situazione rischia di portare ad una concentrazione del potere nelle mani di pochi. Per evitare ciò, la proposta estrema e provocatoria di Brennan è di sperimentare una forma di governo «epistocratico» (governo dei dotti), che sia compatibile con parlamenti, elezioni e libertà di parola, ma «distribuisca il diritto di voto in base a criteri di conoscenza e competenza». C’è da osservare che la democrazia rappresentativa è nata come forma epistocratica e tale è rimasta nell’antichità e per tutto il periodo del suffragio limitato. Quando, a seguito di lunghe lotte popolari il suffragio è stato allargato prima a tutte le persone di sesso maschile, poi anche alle donne, si è diffusa l’idea che all’uguaglianza nella titolarità dell’elettorato attivo corrispondesse eguaglianza nelle capacità. In realtà, la parificazione tra eguaglianza formale e sostanziale in materia politica è smentita dalla stessa nostra Carta Costituzionale, che attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono «l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale del Paese» (art. 3). Per molti anni i partiti, con le loro scuole e con l’attività delle loro sezioni, hanno svolto un importante compito per la formazione dell’elettorato e per la selezione dei candidati.

Oggi, in presenza di un’estesa diffusione di istanze populistiche, la classe politica ha raggiunto un grado di mediocrità tale da suscitare diffuse reazioni antidemocratiche. Ovviamente, la soluzione di tornare ad un «elettorato ristretto» è inaccettabile. Il suffragio universale costituisce il meccanismo imperfetto e insieme imprescindibile per dare legittimità ad ogni processo di costruzione civile che affondi le proprie radici su basi autenticamente democratiche. Sarebbe molto opportuno, piuttosto, riflettere sulla necessità di accrescere il livello di educazione civica dei cittadini, attribuendo un ruolo centrale alla scuola e all’informazione nelle sue varie espressioni. Non solo; considerato il rilievo e le ricadute sociali dell’attività politica, sarebbe auspicabile l’introduzione di ulteriori requisiti di «candidabilità» per l’accesso alle varie cariche. Solo l’insieme coordinato di queste azioni potrebbe rendere concreto il dettato dell’art. 3 della Costituzione.

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