Erdogan vince
la Turchia guarda a est
Scommessa vinta, dunque. Ma a quale prezzo? Il margine è stato risicato, solo un 51,3% dei 47,5 milioni di votanti ha detto sì, e la delusione degli uomini del governo è stata appena mascherata dal rituale sventolio delle bandiere. Viene tra l’altro da pensare che la miopia dei politici tedeschi e olandesi che bloccarono e cacciarono i ministri turchi possa aver contribuito a raccogliere quei pochi voti che hanno fatto pendere la bilancia dalla parte di Erdogan e della sua propaganda. Le contestazioni forti e i dubbi degli osservatori internazionali, per nulla convinti della regolarità del voto, sono più che evidenti e chiaramente espressi. È probabile che a Erdogan di tutto questo importi poco, almeno fino a quando lo sdegno internazionale resterà fatto di parole. E non pare che ci si possa aspettare granché: l’Europa, legata mani e piedi dal «contratto» firmato con la Turchia sui migranti, farà poco o nulla; la Russia men che meno; gli Usa di Donald Trump hanno già tanta carne al fuoco (Siria, Afghanistan, Corea del Nord) e dopo tutto la Turchia è un Paese della Nato, no?
È all’interno, però, che il Rais corre i rischi maggiori. Tutte le grandi città, Istanbul, la capitale Ankara e Smirne (ovvero, 23 milioni di abitanti sui 75 totali del Paese), gli hanno detto nettamente no. La parte più moderna e avanzata del Paese non lo segue e, anzi, lo contesta. I voti gli arrivano dalla Turchia dell’interno, quella che ha ottenuto grandi benefici dal suo primo decennio di governo, ma che è tuttora più sensibile alla pozione di islamismo e nazionalismo che Erdogan da anni ormai distribuisce in dosi sempre più massicce. I voti si contano e non si pesano. Erdogan, poi, li conta pure a suo modo. Ma un Paese come la Turchia, che ambiva all’Europa, alla definitiva modernizzazione e a giocare un ruolo di potenza regionale, avrebbe bisogno di ben altro impulso e, soprattutto, di un’ispirazione più lungimirante. Questo referendum, al contrario, è un gioco di difesa e di chiusura, un arrocco da cui sarà difficile uscire. Posizione scomoda, che potrebbe consegnare la Turchia a un rapporto economico-politico sempre più stretto con Russia e Cina, ovvero con i Paesi che già ora, insieme, provvedono a circa il 25% delle sue importazioni e con cui la Turchia ha grandi progetti nel campo dell’energia, dal gas naturale al nucleare. Non è una buona notizia. Non perché si debba commerciare solo con alcuni e non con altri, ma perché anche la Turchia, Paese mezzo europeo e mezzo asiatico come la Russia, viene ricacciato (politicamente, culturalmente ed economicamente) verso Est e a Est si rifugia. Solo pochi anni fa speravamo, anzi credevamo, proprio il contrario.
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