Erdogan vince
la Turchia guarda a est

A meno di novità assolutamente clamorose, Recep Erdogan ha vinto l’ennesima, e forse la più azzardata, delle scommesse politiche che hanno punteggiato la sua straordinaria carriera politica. A ogni sfida il Rais ha reagito alzando la posta in gioco. Con questo referendum, Erdogan ha risposto al tentato colpo di Stato del 15 luglio 2016. Dopo aver rischiato di perdere tutto, ha chiesto ai cittadini turchi di assegnargli poteri quasi monarchici. La riforma costituzionale che ieri è stata approvata, infatti, assegna al presidente numerosi dei poteri che prima spettavano al primo ministro (potrà proporre progetti di legge, decreti legislativi e ricorsi alla Corte costituzionale, oltre che scegliere il vicepresidente, i ministri e gli alti funzionari governativi) e nello stesso tempo ridimensiona brutalmente quelli del Parlamento. Ora Erdogan può pensare di restare in carica fino al 2029 e battere così ogni record, anche quello di Ataturk, essendo diventato premier per la prima volta nel 2003.

Scommessa vinta, dunque. Ma a quale prezzo? Il margine è stato risicato, solo un 51,3% dei 47,5 milioni di votanti ha detto sì, e la delusione degli uomini del governo è stata appena mascherata dal rituale sventolio delle bandiere. Viene tra l’altro da pensare che la miopia dei politici tedeschi e olandesi che bloccarono e cacciarono i ministri turchi possa aver contribuito a raccogliere quei pochi voti che hanno fatto pendere la bilancia dalla parte di Erdogan e della sua propaganda. Le contestazioni forti e i dubbi degli osservatori internazionali, per nulla convinti della regolarità del voto, sono più che evidenti e chiaramente espressi. È probabile che a Erdogan di tutto questo importi poco, almeno fino a quando lo sdegno internazionale resterà fatto di parole. E non pare che ci si possa aspettare granché: l’Europa, legata mani e piedi dal «contratto» firmato con la Turchia sui migranti, farà poco o nulla; la Russia men che meno; gli Usa di Donald Trump hanno già tanta carne al fuoco (Siria, Afghanistan, Corea del Nord) e dopo tutto la Turchia è un Paese della Nato, no?

È all’interno, però, che il Rais corre i rischi maggiori. Tutte le grandi città, Istanbul, la capitale Ankara e Smirne (ovvero, 23 milioni di abitanti sui 75 totali del Paese), gli hanno detto nettamente no. La parte più moderna e avanzata del Paese non lo segue e, anzi, lo contesta. I voti gli arrivano dalla Turchia dell’interno, quella che ha ottenuto grandi benefici dal suo primo decennio di governo, ma che è tuttora più sensibile alla pozione di islamismo e nazionalismo che Erdogan da anni ormai distribuisce in dosi sempre più massicce. I voti si contano e non si pesano. Erdogan, poi, li conta pure a suo modo. Ma un Paese come la Turchia, che ambiva all’Europa, alla definitiva modernizzazione e a giocare un ruolo di potenza regionale, avrebbe bisogno di ben altro impulso e, soprattutto, di un’ispirazione più lungimirante. Questo referendum, al contrario, è un gioco di difesa e di chiusura, un arrocco da cui sarà difficile uscire. Posizione scomoda, che potrebbe consegnare la Turchia a un rapporto economico-politico sempre più stretto con Russia e Cina, ovvero con i Paesi che già ora, insieme, provvedono a circa il 25% delle sue importazioni e con cui la Turchia ha grandi progetti nel campo dell’energia, dal gas naturale al nucleare. Non è una buona notizia. Non perché si debba commerciare solo con alcuni e non con altri, ma perché anche la Turchia, Paese mezzo europeo e mezzo asiatico come la Russia, viene ricacciato (politicamente, culturalmente ed economicamente) verso Est e a Est si rifugia. Solo pochi anni fa speravamo, anzi credevamo, proprio il contrario.

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