Europa: un’estate
di sangue e terrore

Ancora una volta la notizia arriva nelle nostre case come un proiettile che manda in frantumi una vetrata, la vetrata della nostra serenità: spari in un centro commerciale di Monaco di Baviera: ci sono vittime, non si sa ancora quante. Killer in fuga, metro chiusa, stato di emergenza in tutta la Baviera.

È l’Isis? Non è l’Isis? Si tratta di criminali comuni, rapinatori violenti, terroristi etero-diretti dal Califfato, come nelle stragi del Bataclan e di Charlie Hebdo, autodidatti del terrore, come nella strage di Dacca, o si tratta del nuovo «terrorismo dei dementi», come a Nizza, che spinge i depressi colpiti da instabilità psichica e da tendenze assassine ad autoproclamarsi un soldato della jihad e ad arruolarsi nel grande network dell’orrore, provocando decine di vittime innocenti?

La verità è che non lo sappiamo, quel che sappiamo con certezza è che l’orrore, l’odio, la violenza, sono diventate nostre compagne quotidiane. Ci svegliamo e sono già lì, in televisione, sullo smartphone, alla radio, all’edicola. «Matti o Isis?», è la domanda che ci poniamo. Lo erano già da tempo compagne della nostra vita, ma questa maledetta estate di luglio ce ne ha dato la certezza.

Per questo possiamo affermare con altrettanta certezza che il terrorismo dell’Isis ha vinto: non importa se l’ordine sia stata impartito direttamente dal Califfato dell’orrore, se i terroristi abbiano compiuto il loro bravo «stage» in qualche campo d’addestramento in Siria o in Afghanistan, se si tratta di un «foreign fighter», di un kamikaze ideologico o di un emarginato delle banlieue di Parigi o di Bruxelles.

Sappiamo però che il terrore, l’angoscia è diventata compagna della nostra vita e che ogni evento di questo genere, grazie all’incredibile salto di qualità comunicativo dovuto al progresso digitale, ai social networks, alla rapidità mercuriale con cui ogni goccia di sangue viene gettata addosso al mondo, funziona come una sorta di bomba nucleare comunicativa, provocando milioni di vittime di quest’angoscia che non ci abbandona mai nel corso della giornata.

Questo terribile «franchising» del terrore, che corre da Baghdad a Dacca, da Nizza a Monaco di Baviera, fa sì che il Califfato di Al Bagdadi sia presente anche dove non si sogna minimamente di esserlo. Gli basta solo diffondere una blanda e cinica rivendicazione qualche giorno dopo, giusto per far sapere che la cosa non gli dispiace, mentre nei media di tutto il mondo si moltiplicano le congetture, le ipotesi, le farneticazioni, le analisi sulla matrice islamica, le dichiarazioni dei politici, le conferme sullo «scontro di civiltà» in atto, anche se l’assassino mangiava carne di maiale, andava a donne e beveva come una spugna durante il Ramadan.

Questo terrorismo vero e non vero, indefinito, onnipresente, vago e continuamente incombente impedisce all’Occidente di ragionare, come la paura dell’uomo nero. Agendo con il solito sfavillio di muscoli, con gli interventi militari in grande stile, rischiamo solo di dare cazzotti al buio e moltiplicare i problemi. L’uomo nero del terrorismo ci mostra solo quanto siano fragili i nostri nervi, le nostre menti, la nostra capacità di reazione.

Non a caso gli ultimi attentati di questo luglio maledetto somigliano terribilmente al caso del cittadino americano di origine afghana che nel giugno scorso uccise 50 persone in un club gay di Orlando, in Florida. Anche allora si parlò di Isis, di Califfato pronto a colpire anche negli Stati Uniti. E quando si scoprì che Mateen era a sua volta un gay, ma con la mente disturbata, era troppo tardi: la paura collettiva dell’America aveva impedito che si ragionasse sulle altre cause, come l’estrema facilità di procurarsi un fucile semiautomatico.

Dobbiamo mantenere i nervi saldi e soprattutto la mente lucida, ragionare volta per volta, affrontare in tutta la sua complessità un fenomeno sanguinario che è aumentato di nove volte dal 2000 a oggi. Non possiamo lasciare a chi parla di scontro di civiltà di fronte a fatti del genere e metterci contro un miliardo di musulmani perché faremmo semplicemente il gioco del terrorismo islamico. Bisogna affrontarli sul loro stesso terreno, quello militare è solo un aspetto, conta molto l’uso adeguato dei social network, dell’apparato comunicativo, dell’intelligence. Bisogna analizzare, in una parola capire e distinguere. Altrimenti perderemo una guerra che stiamo già perdendo, perché la violenza è diventata la nostra compagna di vita

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