Formiche e cicale
Chi vince e chi perde

Se, a soli otto giorni dalla pretesa «vittoria della democrazia» referendaria ad Atene, il quadro è ora tanto cambiato, una riflessione antica innanzitutto si impone, e cioè che le regole della politica e dell’economia non si possono forzare oltre una certa misura. Altrimenti si rischia persino l’umiliazione di cui molti parlano oggi.

E quindi reagire alla delusione dell’utopica esaltazione della democrazia diretta evocando il colpo di Stato, è segno di impotenza, e dire comunque «podemos» violando quelle regole produce solo danni alla causa. I calcoli che hanno quantificato in 900 euro a testa, due miliardi complessivi, la perdita prodotta in sei mesi al popolo greco dalle scelte di Syriza, sono lì a dimostrare una drammatica eterogenesi dei fini. E rende anacronistiche le strumentalizzazioni dei turisti politici con biglietto di ritorno, soprattutto italiani, già portatori, con telecamera al seguito, di conforto non richiesto. Speriamo si sia capito che un referendum in un Paese non è la Cassazione che cancella le sentenze elettorali di tutti gli altri. E che lo Tsipras che scarica le responsabilità sui pensionati al bancomat non è un nuovo Che Guevara, e anche il marxismo leninismo con vista sul Partenone di Varoufakis è stato solo un po’ patetico.

Avere ballato una notte a piazza Syntagma non cancella dunque un errore politico e culturale: pensare e soprattutto far credere che un referendum, un’uscita unilaterale dall’Europa possono essere decisi in una logica binaria (oki o nai?) e poi passar oltre senza pagare il conto, perché tanto si può mettere ai voti il proprio debito. Troppo comodo. Perché la democrazia vuole se mai che le minoranze robuste emerse in tutta Europa per l’insoddisfazione della politica comune sveglino le maggioranze inerti, e poi eventualmente vincano, non che chi perde possa prendere l’intera posta alla roulette referendaria, in una avventurosa convergenza destra-sinistra. Se un progetto è in crisi, ce ne vuole un altro migliore, non un salto nell’utopia.

La politica e l’economia si vendicano di queste semplificazioni, e lasciare 50 miliardi in garanzia dei propri comportamenti virtuosi, da verificare addirittura nelle prossime 48 ore, non era tra le cose respinte dalla piazza solo due domeniche fa. Quando fu detto «no» ad un astruso documento da leggere eventualmente sul web ma anche, non dimentichiamolo, «sì» all’euro con buona pace dei tanti che si stringevano a coorte da destra a sinistra, con disdetta appena in tempo dell’aereo di Salvini. I referendum si possono anche fare, e ne avremo presto uno ben più serio nel Regno Unito, ma lì hanno previsto un anno di riflessione, non tre giorni di comizi.

Ora è tornata la politica, che passa dai parlamenti. Quella che spacca Syriza ben più profondamente di quanto potessero fare 17 Fassina in salsa greca, quella che costringe la stessa Germania a fare i conti tra l’intransigenza di Schauble e le oscillazioni della Merkel, entrambi ora più deboli. Così come sono politici i problemi di Hollande, che ha fatto traballare l’asse con Berlino, e di Renzi, che non ha avuto in trasferta la rapidità decisionale che vanta in casa. E politica, totalmente politica, dovrà essere soprattutto la riflessione su una revisione dei trattati e delle regole, di cui è innegabile l’urgenza migliorativa, non quella abrogativa.

Una lezione insomma per tutti, non solo per la Grecia, perché questa estenuante negoziazione politica è stata il contrappasso di certi stucchevoli vertici tra un aereo e l’altro, per l’approvazione di comunicati stampa vaghi ed elusivi su tanti dossier rinviati (Ucraina, immigrazione, accordi con gli Usa). Il problema del debito, del resto, non è solo greco e forse ci siamo dimenticati che il fiscal compact obbligherà l’Italia a tagliare una cifra della metà di quanto deciso ieri per alleviare i guai ellenici, ma ogni anno per vent’anni di fila.

La paura vissuta sul baratro greco deve insomma servire a qualcosa, evitando di spaccare un continente tra le miopi cicale pretenziose e le furbe formiche arrembanti che abbiamo visto in queste settimane. Ma, per favore, basta con certe «vittorie della democrazia». Da noi sarebbe improponibile mettere ai voti l’aumento dell’Iva, ma non per questo, con tutti i nostri difetti, ci sentiamo meno democratici.

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