Germania, settimana a 28 ore
Decide il lavoratore

Possibilità di scegliere un orario di 28 ore di lavoro anziché di 35. Questa è la conquista dei sindacati metalmeccanici tedeschi e come dice con enfasi il capo del IG Metall Jörg Hoffman «una pietra miliare sulla strada che conduce ad un mondo del lavoro autogestito». Di questo si tratta perché al lavoratore è data facoltà di scegliere la settimana con meno ore per due anni e con una retribuzione invero non uguale a quella dei colleghi con 35 ore lavorative ma con 100 euro in più per i mesi di gennaio, febbraio e marzo, un ulteriore bonus del 27,5% di una mensilità, così come a partire dal 2019 una tantum di 400 euro. Il tutto con un incremento fisso del 4,3% delle retribuzioni.

Per la prima volta la flessibilità non è a discrezione del datore di lavoro ma del lavoratore. È un punto qualificante che nasce dal fatto che l’aumento di produttività è demandato alle macchine e ai robot che sostituiscono il lavoro umano. Nel tempo libero il lavoratore può dedicarsi maggiormente alla famiglia ma va anche detto che gli asili nido sono stati potenziati sul territorio e le scuole sono a tempo pieno. Ne discende che lo Stato si accolla sempre più i compiti di educazione e cura della prole e lascia ai genitori maggior tempo per se stessi. È la società dell’individualismo che avanza ed è nel segno della rivoluzione tecnologica. Una società produttiva moderna si muove in questa direzione e non è un caso che il segno della svolta venga dato nel Paese più avanzato sul piano industriale. Già si sentono voci in Italia che invocano il modello tedesco anche per i lavoratori italiani.

Qui è necessario fare alcune precisazioni. I sindacati tedeschi in tutti questi anni, a partire dall’Agenda 2000 del governo Schröeder, hanno sempre puntato sulla difesa del posto di lavoro e sulla disponibilità a ridurre i salari in cambio di riallocazioni delle attività produttive in Germania. Era la mossa dei lavoratori per indurre le imprese a riportare in patrie le aziende che avevano dislocato. E non è stata una passeggiata visto che parliamo di 15 anni di tagli produttivi, e di riduzioni delle retribuzioni dei lavoratori. I Paesi colpiti dalla crisi, a cominciare dall’Italia, hanno sempre rimproverato alle autorità tedesche la ostentata moderazione salariale. E per due fondati motivi: con la moneta unica si rendevano le merci tedesche molto più competitive a danno dei prodotti delle aziende degli altri Paesi europei e poi con bassi salari i lavoratori tedeschi si astenevano dagli acquisti e quindi deprimevano la domanda interna tedesca. Tutto questo a sua volta si rifletteva negativamente sui mercati degli altri Paesi che trovavano in Germania una domanda ridotta e quindi poche possibilità di fornire prodotti e servizi.

Adesso l’austerità è finita perché l’economia tedesca è consolidata e i tassi di crescita per i prossimi anni assicurati. Come assicurare questo momento favorevole? Solo se le economie dei Paesi in difficoltà verranno aiutate con la possibilità di esportare nuovamente in una Germania con i consumi in crescita avendo modo di dare consistenza ai mercati di riferimento per le esportazioni tedesche. Non va infatti dimenticato che più del 60% dell’export tedesco ha base in Europa. Qui è il mercato interno sul quale fare affidamento. Ciò che accade fuori dai confini europei è troppo esposto alle variabili della politica. Trump insegna. Questo non deve illudere sulle condizioni italiane. Per i tedeschi il benessere acquisito è la conferma che la moderazione e il risparmio pagano. E per Paesi gravati da forte debito e con una struttura industriale non adeguata - il 95% delle aziende con meno di dieci addetti - il sogno tedesco non é dietro l’angolo.

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