Giovani senza lavoro
Rinascita lontana

Cresce la percentuale di giovani senza lavoro. E cala la speranza di un futuro migliore, la speranza di essere finalmente usciti dalla crisi che ci attanaglia da un decennio. I dati resi noti ieri dall’Istat pesano come una condanna senza appello proprio perché colpiscono laddove dovrebbe risiedere la speranza di un Paese, i suoi giovani. Le, poche, giustificazioni non sono certo consolanti. Una delle spiegazioni è che cresce la percentuale della disoccupazione fra i giovani perché cresce l’età media, siamo sempre più un Paese di vecchi e l’attesa inversione di tendenza demografica, con la ripresa delle nascite, tarda a farsi sentire malgrado la prolificità degli immigrati.

Più che una consolazione è un ulteriore motivo di tristezza: non si fanno figli per un diffuso egoismo, ma anche per una sorta di paura del futuro, sempre più incerto. Continuiamo a dimenticarlo, in parte a censurarlo: lo sviluppo demografico, la prolificità delle famiglie, è uno dei fattori di crescita economica, uno degli elementi che incide sulla famosa e agognata crescita del Pil.

La seconda spiegazione è che in alcune aree del Paese, quelle più sviluppate, come il Nord, si registrano tassi di disoccupazione giovanile molto più bassi della media nazionale. Ma anche questo è un dato che non può certo consolare perché rivela che il freno pesa e rallenta sempre più. Quello che è avvenuto in queste settimane nel centro-sud con le continue scosse di terremoto e i disastri causati dalle insolite nevicate non potrà che accentuare il fenomeno e la disparità fra zone trainanti più sviluppate e quelle sottosviluppate anche nei prossimi rilevamenti occupazionali dell’Istat.

Resta il dato, dunque, con la sua drammaticità: la disoccupazione giovanile, cioè quella della fascia di età fra i 15 e i 24 anni, a dicembre ha sfondato il muro del 40%, attestandosi al 40,1%, due decimi di punto sopra il dato del novembre 2016 e, soprattutto, al livello più alto dal giugno del 2015. La ripresa se c’è non si vede, non si nota soprattutto laddove più sensibile dovrebbe essere la sua incidenza. Ci sono due elementi, fondamentali, che l’aridità dei numeri non mette sufficientemente in rilievo. Il primo è il diffuso senso di sfiducia. Tutto quello che sta accadendo, dalla situazione politica interna a quella internazionale, dai disastri anche naturali di questo inverno alle difficoltà della ripresa economica, favorisce un clima di non fiducia: si ha sempre più la percezione di essere anni luce lontani da un clima di rinascita, ma ancora sprofondati in una zona di depressione. È come se fosse irrimediabilmente finito il Dopoguerra con la sua crescita continua, un ascensore sociale che permetteva ad ogni generazione di sopravanzare in benessere la precedente. Ora si ha invece l’impressione di un regresso quasi inevitabile e l’unica ambizione, da un punto di vista economico, pare essere il mantenimento dello stesso livello, riuscire a stare fermi. Così come la crescita demografica è uno dei fattori di avanzamento del Pil lo è pure la fiducia: questo clima è perciò doppiamente deleterio.

Ma vi è un ultimo elemento. La disoccupazione giovanile è figlia, almeno in parte, anche del venir meno dell’apprendistato. È come se questa nostra società, questa nostra scuola, queste nostre imprese siano diventati incapaci di inserire i giovani, di trasmettere i rudimenti del mestiere, qualunque esso sia. Salvo pochissimi esempi positivi, non esiste più una capacità di trasmettere i rudimenti del mestiere e, da parte della scuola, di passare dalla teoria alla pratica. La lontananza della scuola e dell’università dal mondo del lavoro sono un aspetto, forse un esito, di questa crisi. Scuola e università non insegnano più a lavorare anche perché è il mondo del lavoro che non pone la domanda di volere forze fresche da inserire nel sistema produttivo, sia esso la catena di montaggio o la gestione di un sito archeologico.

Come sempre dunque, quando si è in presenza di una crisi di sistema come la nostra, le responsabilità non sono solo di un pezzo del sistema. Non si tratta appena di far riprendere l’economia con adeguate politiche industriali, ma di rendere cosciente ogni segmento sociale della necessità di rimettersi in moto, a iniziare dalla scuola e dalla famiglia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA