Giustizia spettacolo
Un danno al Paese

La spettacolarizzazione delle inchieste è una deriva che non giova alla causa della giustizia italiana. Delle relative procedure anomale se ne è accorto perfino un ex pubblico ministero battagliero e mediatico. Indagato dai suoi ex colleghi della Procura di Palermo per peculato, nelle vesti di manager di un’azienda della Regione Sicilia per i servizi informatici, Antonio Ingroia ha così posto la questione in un’intervista pubblicata mercoledì scorso da un quotidiano nazionale: «Mi chiedo chi abbia fatto filtrare la notizia dell’interrogatorio». Già, giusta domanda. Qualche giorno prima invece le cronache davano conto di un provvedimento clamoroso, relativo all’inchiesta Consip (la centrale acquisti della pubblica amministrazione) che vede tra gli indagati il padre di Matteo Renzi (per traffico di influenze illecite) e il ministro Luca Lotti (per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento): la Procura di Roma ha revocato la delega d’indagine ai carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Napoli, affidandola alla Guardia di finanza del capoluogo campano e ai carabinieri della capitale, in seguito alla fuga di notizie.

Una definizione, fuga di notizie, che sa di divertente ipocrisia: come se le informazioni scappassero e non fossero invece gestite anche con la finalità di orientare l’opinione pubblica. Una tendenza che merita attenzione perché la sequela di titoli roboanti sulle inchieste giudiziare che riguardano il mondo della politica contribuisce a surriscaldare il clima di avversione e di distacco da parte degli elettori verso la nostra classe dirigente.

Un clima generato da fatti oggettivi: promesse vane, autoreferenzialità, attaccamento a privilegi mentre si chiedono sacrifici ai cittadini. E corruzione in alcuni casi, acclarati con sentenze passate in giudicato. Ma è velenoso sommare a queste evidenze vicende giudiziarie ancora in corso e il cui esito non è scontato. Il caso dell’inchiesta Consip rientra in questa specie. I media l’hanno raccontata in questi giorni fornendo ricostruzioni basate su parole riferite non ancora riscontrate e su «pizzini» assemblati recuperando in una discarica fogli stracciati. Non solo il processo non è iniziato, ma non sono nemmeno stati ancora chiesti eventuali rinvii a giudizio. Eppure in pubblico sono state già emesse sentenze. La tendenza a tirare le conclusioni prematuramente è figlia di una serie di mancanze. La cultura giuridica nel nostro Paese non gode di buona salute. L’informazione poi ha bisogno di temi forti quotidiani ed è incalzata dal mito della velocità, dei tempi stretti, ritenuto incompatibile con la prudenza nel leggere le vicende, tanto più quando in causa è il potere politico e i suoi intrecci con quello imprenditoriale. Così il sistema dei grandi media ha abdicato da una responsabilità sociale prima ancora che intellettuale: aiutare i cittadini a decrittare la realtà, a leggere le sue complessità e a fornire distinzioni come quella tra giudizio politico su informazioni giudiziarie ed eventuale giudizio penale. Con due esiti nocivi: il sistema politico sfrutta e cavalca questo approccio superficiale nella contesa fra le parti; il pubblico si ritrova ad affrontare ondate di notizie presentate senza la cautela necessaria (come il semplice uso del condizionale nel declinare i verbi delle cronache giudiziarie, in assenza di reati già documentati), con buona pace del declamato spirito critico.

Eppure capita che il tempo (a concederselo) ci restituisca alcuni fatti dentro una nuova veste. Il caso più eclatante in materia riguarda Stefano Graziano, consigliere regionale e (ex) presidente del Pd campano. Indagato per concorso esterno in associazione camorristica nell’aprile del 2016, alla vigilia del voto amministrativo, fu sottoposto a pesantissime condanne pubbliche, con i media che davano spazio a chi lo bollava come mafioso. A fine febbraio le accuse a Graziano sono state archiviate.

A inizio febbraio invece l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno era stato prosciolto nell’ambito dell’inchiesta «Mafia Capitale» dalla grave accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso (insieme ad altre 113 persone per altri capi di imputazione). Sempre quest’anno da casi giudiziari sono usciti indenni altri politici: Ignazio Marino, Vincenzo De Luca, Ilaria Capua (ricercatrice accusata di avere diffuso ceppi virali per guadagnare dalla vendita dei vaccini; era anche deputata di Scelta Civica: si è dimessa dal Parlamento e ha lasciato l’Italia dopo il proscioglimento), Luigi Cesaro, Maurizio Gasparri, Clemente Mastella, Sandro Frisullo (ex vicepresidente della Regione Puglia, arrestato nel 2010 con l’accusa di turbativa d’asta per una presunta gara truccata per forniture all’Asl di Lecce) e Vasco Errani. Le loro vicende sono reperibili in internet, dove restano agli atti anche le condanne preventive e il dileggio greve. Sintomi di un Paese incattivito e disorientato, chiuso nell’illusione consolatoria ed effimera della gogna.

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