Gli angeli del fango
ci indicano la strada

Gli angeli del fango sono tornati all’opera. Sotto un cielo di piombo che promette nuova acqua e nuove emergenze, centinaia di ragazzi hanno risposto all’appello dei social network e sono scesi nelle piazze, nelle strade, nelle cantine di una Genova stremata. Con pale, stivaloni e un sorriso grande così. Hanno rispolverato le magliette del 2011 (che nessuno aveva gettato via, conoscendo chi ci amministra), quelle con scritto «Non c’è fango che tenga» e sono comparsi sui luoghi del disastro. Lungo il Bisagno, a Marassi, nelle periferie strangolate dalla massa di liquame marrone che attanaglia, distrugge e deprime.

Gli angeli del fango sono tutti giovanissimi e le foto rendono onore a un esercito entusiasta che vuole mostrare d’essere protagonista chiedendo solo una chance. L’immagine simbolo è quella di una ragazza che porta via un secchio pieno di macerie, con i capelli raccolti, la maglietta azzurra incrostata di melma e un curioso naso rosso da clown come Robin Williams nella parte del medico Patch Adams, per far tornare il sorriso alla città in ginocchio. Arrivano dalla Lombardia e dal Piemonte, scendono dal treno e chiedono «Cosa posso fare?». Si uniscono ai coetanei genovesi, si mettono a disposizione per spalare fango, rimuovere detriti, strizzare stracci intrisi. La solidarietà di questi giovani che la società degli adulti ha messo fuori gioco è un grande insegnamento. Ci galvanizza e al tempo stesso ci inchioda alle nostre responsabilità. Se la forza di quei giovani si potesse trasformare in voce sarebbe un grido potentissimo, vibrante e vitale, capace di far scoppiare lampadine e bicchieri e volte di cristallo della politica. Sarebbe un modo possente per dire una volta per tutte: «Ci siamo anche noi».

E allora ascoltiamoli, come abbiamo saputo ascoltare coloro che nel 1966 salvarono le biblioteche a Firenze quando l’Arno impazzì. Accanto a loro ci sono gli adulti, li governano, indicano la strada come dev’essere. Non stanno seduti a gestire il potere, ma sono un esempio. «Ero un volontario durante l’alluvione di Genova del 1970, sono diventato grande lì», spiega un genovese che coordina i ragazzi. È una metafora stupenda della società che dovrebbe vincere la partita contro l’immobilismo. In una città vinta dal fiume e dall’incuria c’è tutto per riconoscere il volto della nuova Italia.

Lontano dalle rendite di posizione, lontano dalle lobby di potere, lontano dai veti incrociati di chi predica bene ma ha un solo scopo: mantenere egoisticamente i suoi privilegi di casta.

Gli angeli del fango in una domenica d’ottobre ci raccontano tutto questo. C’è l’immigrato con la maglia che sembra un progetto di integrazione: «Nessuno è straniero». Lui e quella ragazza col naso rosso, e quelle centinaia di studenti che hanno deciso di sporcarsi le mani per salvare una città, lavorano e sorridono. «Nel fango ci muoviamo bene» sussurrano a chi li filma, a chi li fotografa. Come a restituire a un Paese colpevole la responsabilità di un destino. Loro credono che si possano spalare anche l’apatìa, la disoccupazione, la negazione del futuro. Ci possiamo vedere tutto dentro questo gesto: un programma politico, una mano tesa con la soddisfazione di fare del bene, un brano immortale di Queneau. Basta chiudere gli occhi e ragionare col cuore.

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