Gli stadi? Il problema
non è (solo) chi paga

La mossa ha un suo perché. Anche due. Decidere di far pagare alle società di calcio le spese straordinarie che lo Stato sostiene per garantire sicurezza alle partite piace alla gente. Al sondaggio sul sito de L’Eco il 70% dei lettori si è detto «assolutamente» d’accordo con la proposta del premier Matteo Renzi.. Il quale ha antenne sopraffine, e sa come parlare alla pancia della gente. Il calcio piace a tanti, ma altrettanti lo detestano: questi ultimi possono aver trovato finalmente il paladino che fa scucire quattrini ai presidenti capaci solo di strapagare giocatori che rincorrono una palla in mutande.

Perché questa è l’immagine che del calcio dà chi proprio non lo sopporta. Ci sta. E ci sta anche che qualcuno decida che l’unico tasto col quale convincere le società a stringere i panni addosso alle curve più violente sia quello del portafogli. Anni e anni di prediche non sono servite a niente: le società se ne fregano (ma se ne fregano anche delle multe...). I tifosi pagano biglietti e abbonamenti, e questo a presidenti e dirigenti basta per scegliere deliberatamente e cocciutamente di non disturbare mai gli ultrà. Anzi: quando si può ci scappa pure il favore, meglio se sottobanco. È un sistema di connivenze e favori reciproci, talvolta anche di ricatti sottintesi. Tutto già noto.

Fa bene, dunque, il governo a sfidare le accuse – non così campate in aria – di demagogia? Sì, se l’intento è «provocatorio». Ma a ben guardare, la scelta di Renzi è una via fin troppo facile per incassare l’applauso del popolo. Perché è di fatto una resa all’insicurezza degli stadi, di fronte alla quale mille governi, incluso questo, non hanno saputo concludere nulla. Che fine ha fatto la legge sugli stadi? Ferma, impantanata. Che fine hanno fatto gli innumerevoli annunci di giri di vite, di «ora basta», di fantomatici sistemi inglesi calati per miracolo negli stadi italiani? Parole, regolarmente parole.

Lo Stato, invece, avrebbe anche un altro compito. Non solo stabilire chi paga il conto dei problemi, ma anche provare a creare le condizioni perché quei problemi – inesorabilmente gli stessi da decenni – non si verifichino più. Uno stadio non è sicuro perché ci sono dieci, cento o mille poliziotti. E non è più sicuro a seconda di chi paga il conto. Uno stadio è sicuro se la struttura non è da museo, per esempio. Ma ancor di più, uno stadio è sicuro se sono «sicuri» i comportamenti di chi ci va. Esattamente come sono sicure le strade se gli automobilisti rispettano le regole, o come è sicuro un volo se i passeggeri non s’imbottiscono di esplosivo.

Ecco perché a ben guardare c’è da restare perplessi di fronte al premier che presenta il conto alle società. Perché lo potrebbe fare a testa alta, se avesse fatto tutto quel che può – a livello legislativo (il Daspo, tanto per dirne una, è un fallimento) e «politico» – per rendere il calcio diverso da quel che è. Se invece si limita a emettere fattura trasmette quasi un senso di rassegnazione, se non di cinico calcolo politico: chissenefrega del problema, se posso raccogliere quattrini da un lato e standing ovation dall’altro.

Dopodiché, è persino ridicola la posizione delle società che minacciano lo sciopero. Perché sanno bene che il problema della violenza l’hanno lasciato lievitare loro (e i calciatori, e gli allenatori...), riconoscendo diritto di cittadinanza, di pulpito e di leadership a personaggi che sarebbero solo ridicoli se non avessero un seguito impressionante. E il seguito dà un potere quasi sempre temuto perché coltivato su logiche che ricalcano in tutto e per tutto quelle mafiose. Quel che ci si ostina a non capire è che certe curve non sono un problema di ordine pubblico: sono un problema di democrazia e di libertà. E chi paga il conto, di fronte a questo, conta poco.

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