Governo, crisi
di leadership

L’uscita delle ministre di Italia Viva dal governo è uno strappo non ricucibile, del quale è difficile pronosticare gli esiti. È il paradosso di un Paese sul quale gravano le incognite di una situazione sanitaria, economica, sociale estremamente delicata e che si trova davanti allo spettacolo
di una politica lontanissima dai bisogni dei cittadini. Innegabilmente al presidente del Consiglio è toccato gestire vicende di enorme complessità. È altrettanto vero che negli ultimi mesi egli ha dato l’impressione di muoversi – sia pure con prudenza verbale – sull’onda di un tatticismo che non ha contribuito a risolvere i problemi e soprattutto a dare prospettive chiare all’azione di governo. A sua volta Renzi si è messo da tempo sulla strada dell’intercettore che si limita a dire perennemente no senza offrire soluzioni alternative a quelle dell’esecutivo. Con il risultato di uno stallo sfociato nella paralisi dell’esecutivo.

Non occorre essere un sociologo o un politologo per capire come al fondo di questa crisi vi sia - più che divergenze reali sulle scelte da compiere - un contrasto insanabile tra il presidente del Consiglio e Renzi. Un contrasto motivato principalmente da un’avversione personale. Questione di leadership, da sempre fattore intrinseco alla politica. Ma con qualche significativo distinguo. Che in politica - come, del resto, negli eserciti e nelle organizzazioni pubbliche e private - occorrano leader è indiscutibile: generali, capitani d’industria, grands commis di Stato sono un elemento indispensabili dell’azione, del passaggio dalle idee ai programmi, dalle strategie agli interventi concreti. Ciò vale in particolare in politica, terreno della legittima disputa tra ideologie, valori, programmi diversi e, in molti casi, non conciliabili tra loro. Per la banale ragione che alla politica spetta di guidare le sorti della società. Per avere credibilità i politici dovrebbero sapersi misurare, ed essere conseguentemente giudicati, in ragione della capacità di governare. E ciò implica che i leader vadano riconosciuti come tali per visione strategica, lucidità di analisi, abilità nella negoziazione e, non per ultima, capacità di mediazione.

Un tempo tale bagaglio di competenze e abilità, unito a personale attitudine, veniva acquisito attraverso un percorso interno alle forze politiche, ognuna delle quali portatrice di un disegno basato su valori e su peculiare concezione del mondo. In Italia il declino dei partiti, culminato nella crisi degli anni ‘90, ha scombussolato le modalità dell’ascesa del personale politico. I criteri di legittimazione e di ricerca del consenso si basano sempre più su altri presupposti: disinvoltura, abilità dialettica, sfrontatezza. Con la tendenza a privilegiare il rapporto diretto con il «popolo», piuttosto che quella di assumere le decisioni utili all’interesse generale del Paese attraverso il confronto di idee e programmi, pur nella distinzione di opinioni e responsabilità. Oggi si è leader più in base al gradimento su facebook che in virtù di posizioni politiche argomentate e frutto di un disegno strategico. Tale modo di operare produce leadership improvvisate, di corto respiro; tanto veloci da raggiungere, quanto facili a franare. Il panorama italiano degli ultimi tre decenni ne fornisce diversi esempi; si pensi a quella stella cometa che è stato Mario Segni. Ancor più significativi i percorsi di alcuni leader attuali. Quello di Renzi, dal 40,8% nelle elezioni europee del 2014 alle esigue proporzioni di Iv. Non dissimile la parabola di Salvini, dall’uomo solo al comando all’affannato critico di ogni scelta compiuta nell’ultimo anno. In raffronto Conte emerge per compostezza; il suo maggior limite è l’assenza di una visione d’insieme, di valori e ideali che vadano oltre semplici riferimenti ai principi propri di una democrazia. Il presidente Mattarella ha chiesto che si faccia presto, chiarendo che serve una maggioranza stabile per il governo. È, quindi, indispensabile che i leader in campo mettano da parte personalismi e convenienze di parte.

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