I diritti a singhiozzo
della sinistra

Sono state la Corte Costituzionale prima e quella europea per i diritti dell’uomo poi a sollecitare il nostro Parlamento perché promulgasse una legge che regolamenta le unioni civili fra persone dello stesso sesso. Comunque la si pensi sulla materia, è un particolare non irrilevante. Ed è stata la stessa Corte di Strasburgo nel 2013 a condannare l’Italia per la situazione di sovraffollamento delle carceri, in violazione della Convenzione europea che proibisce trattamenti inumani e degradanti. Questi pronunciamenti segnalano quanto la politica italiana agisca a sovranità limitata e di rimessa su temi così delicati.

Lo scorso 20 gennaio invece una direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio Ue, che non ha avuto risalto nei media nazionali ad eccezione de «Il Foglio», è intervenuta sul rafforzamento della presunzione di innocenza nei processi penali. I 28 Stati dell’Unione avranno ora due anni di tempo per recepirla. In alcuni passaggi sembra rivolta in particolar modo all’Italia, prendendo di mira anche la gogna mediatica, tanto in voga nel Belpaese. L’invito è infatti quello di «garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata», le dichiarazioni di «autorità pubbliche (cioè giudiziarie e di polizia, ministri e funzionari, ndr) e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole». I Parlamenti dell’Ue dovranno poi adottare misure per ribadire il principio secondo il quale «l’onere della prova della colpevolezza di indagati e imputati incombe alla pubblica accusa», e quindi «qualsiasi dubbio dovrebbe valere in favore dell’indagato o imputato», come recita del resto il principio latino «in dubio pro reo».

In Italia il clima sociale, tendente al giustizialismo, non è favorevole al recepimento della direttiva. E la politica si adegua più all’opinione pubblica che non a solide culture giuridiche. Società e partiti adottano spesso una logica di parte: garantisti con gli amici, manettari con gli avversari. La destra (in buona parte) si è ormai consegnata all’estremismo telegenico di Salvini. La sinistra (in buona parte) è in trincea a difendere il disegno di legge Cirinnà sulle unione civili sventolando la bandiera dei diritti individuali, ardore riposto quando quei diritti toccano temi impopolari come il garantismo. Non a caso il ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd), persona seria e non incline ai condizionamenti della ribalta, intervenendo in un convegno a Milano, ha espresso sconforto con queste parole: «Si è affermata nell’opinione pubblica un’idea forcaiola che ha cambiato anche i connotati della sinistra del tipo “prendere e buttare via la chiave della cella”. Contro questo spirito sento la mancanza del partito. Abbiamo fatto tante cose ma sottovoce perché anche i nostri non capiscono». Quanto ai processi mediatici, Orlando è convinto che si debba intervenire con la leva della deontologia dei giornalisti, sottovalutando però il ruolo di magistrati che usano l’informazione come strumento di pressione su imputati e opinione pubblica. Per altro nel mondo dell’informazione c’è chi ha espresso lucidi pentimenti, anche se un po’ tardivi. Ferruccio de Bortoli nell’aprile scorso, congedandosi dal Corriere della Sera, scrisse fra l’altro riguardo alla sua direzione: «Errori ce ne sono stati. E non pochi. La colpa è esclusivamente mia. Un esempio? I giornali dovrebbero tutelare di più le persone coinvolte in fatti di cronaca o inchieste. Non sono oggetti inanimati delle notizie o protagonisti involontari di una fiction . Hanno famiglie e sentimenti. La loro dignità va sempre salvaguardata e l’onore restituito quando è il caso». Non tutto si può giustificare con l’inalienabile diritto di cronaca. Anche perché c’è cronaca e cronaca.

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