I mercati internazionali
e la paura dell’Italia

Il differenziale tra il tasso di interesse dei titoli italiani di Stato e quello dei Bund tedeschi ha sfiorato quota 190 punti. Negli ultimi tre mesi il rendimento dei titoli di Stato decennali è raddoppiato. Dovrebbe accadere il contrario perché la Banca Centrale Europea acquista sul mercato 10 miliardi al mese di bond italiani e quindi il tasso di interesse dovrebbe scendere. Invece succede che mentre la Bce compra, gli investitori esteri vendono. La verità è che gli operatori finanziari temono l’instabilità politica del Paese.

La domanda che molti però si pongono è: perché gli italiani dovrebbero preoccuparsi visto che il mondo è popolato da una massa di debiti pubblici e privati pari a due volte e mezzo il prodotto globale? In fin dei conti anche la vittoria dei favorevoli al Brexit non ha precipitato l’economia inglese in quella crisi drammatica che le grandi istituzioni internazionali avevano minacciato. Donald Trump, indicato come pericolo per l’imprevedibilità del personaggio e la vaghezza del suo programma, si sta rivelando per le piazze finanziarie meno destabilizzante di quanto immaginassero i mercati.

E stiamo parlando di fenomeni molto più rilevanti per la politica internazionale del referendum, in uno Stato da settant’anni saldamente ancorato nella democrazia, sulle modifiche da apportare alla costituzione italiana. Determinante non è quindi il referendum in sé quanto il contesto nel quale si svolge. Il Paese fa fatica a crescere, ha una bassa produttività, in molti settori non è competitivo, ha una crisi bancaria non ancora risolta e difficoltà a finanziare gli investimenti per evidenti problemi di bilancio, ha una inflazione a zero e quindi non può contare su una svalutazione strisciante per ridurre il debito, è afflitto dall’emergenza del terremoto e da quella dei migranti con costi notevoli per le casse dello Stato, non riesce a ridurre il deficit e la montagna di duemila e passa miliardi di esposizioni grava minacciosa.

Una situazione di questo genere ha bisogno di una guida stabile che affronti i mali alla radice. Ma le riforme prima di dare i loro frutti hanno bisogno di tempo. Una risorsa che scarseggia in un Paese afflitto da disoccupazione e consumi stagnanti. I conti ancora per troppe famiglie a fine mese non tornano. Il governo del socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder nel 2003 ha fatto riforme importanti che però gli sono costate il posto, mentre il frutto del suo sacrificio politico è stato goduto dal suo successore.

Un vantaggio che si riflette sui 12 anni di governo di Angela Merkel. Può essere che anche questo sia il destino del governo Renzi . E tuttavia va registrata un’importante differenza: in Italia il centrodestra, un tempo monopolizzato da Berlusconi, versa in crisi di identità e quindi ha difficoltà a presentare un candidato per le prossime elezioni. Il movimento 5 Stelle rimane il vero antagonista. Rimarrebbe nelle regole della democrazia un suo successo alle elezioni politiche ma il quadro politico è troppo confuso anche per l’assenza di una legge elettorale da tutti riconosciuta e legittimata, per tranquillizzare gli investitori. E qui arriviamo al punto: pesa di certo l’incertezza politica ma il vero convitato di pietra è il debito. In Italia l’esposizione dello Stato acquista le luci della ribalta quando l’emergenza ne guida i destini. Auspicabile sarebbe un programma che si articoli nel tempo e delinei strategie di intervento. Perché il 132,7% del pil pesa sulle casse dello Stato, ma ancora di più pesano l’inerzia della politica e la rassegnazione.

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