I popoli si tengano
stretta l’Europa

Alla fine è la questione religiosa l’ultima istanza d’Europa. Non perché tutti debbano diventare cristiani ma perché il cristianesimo è il collettore transnazionale, il fattore unificante nella diversità. È una consapevolezza che emerge proprio in un tempo nel quale le chiese si spopolano e la religione è relegata a semplice opzione individuale. I sacerdoti sono sempre di meno e aumentano i dubbiosi. Ma i valori dei quali il cristianesimo si è fatto portatore nel tempo sono di tutti e hanno guidato i popoli europei nella storia.

La civiltà greco romana è la base dell’identità europea. Su di essa sono state poi costruite le appartenenze nazionali. Si può viaggiare da nord a sud da est a ovest ma quello che non cambia nel vecchio continente è la posizione della chiesa: al centro dell’abitato là dove si è raccolta la comunità. Ciò che strania l’europeo in Usa è la mancanza di un luogo urbano identificabile con la piazza, con la chiesa.

La centralità della persona, la necessità di difenderne non solo la libertà economica ma la sua vita privata e familiare è al centro dell’attenzione del legislatore ed è uno specifico europeo. Lo si vede nell’opposizione diffusa all’invasività di Google, di Facebook, di Microsoft, di Amazon dei nuovi potenti del nostro tempo.

Negli Stati Uniti manca una normativa per la protezione dei dati come quella emanata a Bruxelles il 25 maggio 2018. Ed è in Europa, l’unico luogo al mondo dove la lotta ai monopoli è una cosa seria. La mancata autorizzazione di Bruxelles alla fusione tra Thyssen Krupp e il gruppo indiano Tata è l’ultimo tassello di questo magnifico mosaico. Memorabile il no a Microsoft del 2001 alla fusione con Honeywell e quello sussurrato e, però subito capito dagli interessati, all’unione tutta tedesca tra Commerzbank e Deutsche Bank. È qui dove passa la linea di demarcazione. La globalizzazione favorisce i grandi numeri e quindi i grandi Paesi. L’America di Trump affronta questo problema appellandosi all’unità della nazione, della lingua, della cultura che è uno Stato e al contempo un continente. Lo stesso fa Xi Jinping che si appella alla tradizione millenaria della Cina per affermarne il ruolo nel mondo. In Europa siamo disuniti e le popolazioni invecchiano. Il rischio di non sopravvivere a se stessi è un po’ la sindrome del nostro tempo. E tuttavia se il vecchio continente rimane diviso tra Stati nazionali può morire là dove è nato.

Chi non si unisce diventa vittima del più grande e potente. Lo stare assieme è diventata una necessità. Per condividerla i popoli guardano ora a ciò che unisce. A un contratto sociale che parta dai valori condivisi.

L’Europa della tecnocrazia ha cercato di unire con l’illuminismo delle classi dirigenti. Ma la testa raziocinante non può bastare se non si associa il cuore. Adesso tocca ai popoli, i grandi esclusi in questa corsa verso la ricerca di una definizione europea. Ce lo dice la campagna elettorale per le elezioni europee del 26 maggio. Tutti contro tutti ma non c’è un partito che dica a chiare lettere: vogliamo uscire. La paura di perdersi nel mare dell’anonimato, di soccombere all’invasione incontrollata di uomini, di merci e di manipolatori di fake news ha la sua proiezione politica nel sovranismo. E tuttavia in una rilevazione commissionata dal Parlamento di Strasburgo la percentuale di cittadini italiani che giudica positivamente l’appartenenza all’Unione europea è a dicembre 2018 al 64 per cento. Persino la Repubblica Ceca fanalino di coda nell’adesione all’Ue adesso è sopra il 60%. A Praga, Berlino, Helsinki, Tallinn e Amsterdam hanno scoperto che è sempre meglio tenersi la Roma di Virginia Raggi che buttarsi nel Tamigi della Brexit.

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