I preti novelli
Una Chiesa di uomini

Sette nuovi preti vengono ordinati in Duomo, per la diocesi di Bergamo, oggi. Quando se ne parla nelle comunità cristiane si avverte un leggero senso di sollievo. Uguale e contrario al leggero senso di smarrimento quando, lo scorso anno, non ne venne ordinato nessuno. Qualcuno, al corrente di crisi, di preti che lasciano, di difficoltà varie, esprime, insieme con il sollievo, anche un po’ di apprensione per il futuro. «In fondo fare i preti oggi non è facile», si sente ripetere spesso. La battuta non è originale, ma è vera. Anzi è vera probabilmente perché non è originale: si limita a rilevare, con una dose di semplice buon senso, un dato di fatto evidente. Se si vuole andare oltre il buon senso ci si accorge che, ancora oggi, attorno al prete girano aspettative contraddittorie. Talvolta ci si aspetta da lui cose grandiose. Si vorrebbe il superuomo che non ci sarà mai e si rischia di non apprezzare l’uomo che, invece, c’è già. In effetti, la prima messa in gioco di un prete è proprio la sua umanità. Lo sanno tutti. Se un prete ha buon carattere, sta bene con la gente, «sente» quello che avviene attorno a lui e sa viverlo seriamente, almeno metà della riuscita del suo servizio è assicurata. Se, al contrario, un prete è scorbutico e scostante, o se «vola» sopra la vita della gente, non sente i suoi dolori e le sue gioie, può essere anche un acuto teologo, un impareggiabile predicatore, ma, alla fine non «attacca»

È fondamentale che il prete sia un «rassambleur d’hommes» (bella l’espressione francese: colui che sa unire gli uomini, unificatore di uomini) . L’umanità del prete che parla di Vangelo è l’insostituibile cartina al tornasole. O c’è l’umanità saporosa che fa da veicolo al Vangelo o non c’è Vangelo. Su questa semplice umanità del piccolo mondo in cui il prete vive si innesta l’umanità del grande mondo che preme tutt’attorno. Il mondo, infatti, si è rimpicciolito e il mondo di una parrocchia di provincia è diventato complesso. È sempre meno mondo a parte e sempre più parte del mondo. L’immigrazione è arrivata anche nelle alte valli, la crisi economica pure, anche nei paesi si è rotto il «sistema di trasmissione» fra le generazioni…e così via.

Ora fare il prete in una comunità così vuol dire fare onestamente i conti con una situazione in movimento. E, cioè, ancora una volta, essere uomo, seriamente uomo che prende atto di quello che c’è e ci vive dentro. Il prete che si mette il tricorno o usa le mantelline colorate dei vecchi arcipreti non dà l’impressione di voler a vivere nel mondo che gli sta attorno. Al contrario, dà l’impressione di volersene tirar fuori. E, di conseguenza, fa passare il messaggio che il Vangelo non dà sapore alla vita, ma che, al contrario, per gustare quel sapore bisogna abbandonare la vita e rifugiarsi altrove. Il Vangelo diventa una forma raffinata di eremitaggio. Invece, solo se c’è simpatia tra il prete uomo e gli uomini, solo se l’umanità del prete è quella di tutti, può fare irruzione la «differenza» del Vangelo. In effetti, è vero, il prete non annuncia la sua simpatia. Non è quella che salva, ma attraverso la sua simpatia annuncia qualcosa d’altro. Questo qualcosa d’altro - la storia unica di Gesù di Nazaret, e i riti che la celebrano e la carità che la rende viva – è però la messa in atto di una inimitabile «simpatia» di Dio per l’uomo. E il prete che, soprattutto, annuncia quella simpatia, deve essere simpatico. Altrimenti non funziona.

Di questo c’è bisogno, soprattutto di questo, oggi. Soffriamo, infatti, di un acuto deficit di umanità, in particolare nelle relazioni lunghe della politica, dell’economia, dei rapporti sociali in genere. E c’è disperato bisogno di oasi di pace, in mezzo ai tanti deserti che dobbiamo attraversare. Il prete è il custode accreditato di alcune di quelle oasi.

Si potrebbe dire la stessa cosa anche in altro modo, con un gioco di parole. I preti ordinati in Duomo sono giovani che hanno accettato di diventare uomini di chiesa, ma sono chiamati, soprattutto, a costruire una Chiesa di uomini.

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