I raid in Libia
e le cautele italiane

I raid aerei americani su Sirte, roccaforte dell’Isis, ci riguardano da vicino, almeno da quando la Libia è strategicamente compresa nell’area del nostro interesse nazionale. È stato il governo Renzi a «europeizzare» il caso libico e ad imporlo nell’agenda internazionale: prima ponendo la questione dei flussi migratori, quindi sollecitando una soluzione istituzionale in un Paese che allora era la «Somalia mediterranea», cioè uno Stato fallito. Dunque: prima la risposta politica, poi quella militare, pur ricordando che l’Italia persegue la linea del non intervento. Nessuno stivale sul terreno, garantendo solo l’uso delle basi (Sigonella e Aviano), l’Intelligence e l’assistenza dei feriti con il trasporto sui nostri Hercules. Nessun ruolo attivo nelle incursioni aeree, ma partecipazione alla coalizione anti Isis in Siria e in Iraq con oltre mille uomini destinati all’addestramento delle forze locali.

Cinque anni dopo la fine del regime di Gheddafi, soprattutto per mano francese, la situazione sul terreno è estremamente incerta e quella politica molto debole. La questione per l’Italia riguarda l’eventuale richiesta americana di utilizzare le nostre basi: Roma ha già detto che – se e quando la domanda verrà – darà l’assenso. L’utilizzo delle piattaforme italiane è regolato da accordi bilaterali con Washington e si riferisce all’autorizzazione al sorvolo del nostro spazio aereo da parte dei velivoli americani. Del resto, con gli Usa, siamo impegnati dalla risoluzione dell’Onu, adottata a dicembre all’unanimità, a sostenere il governo di unità nazionale guidato da Al Sarraj.

L’Italia, anche in questa circostanza, s’è mossa misurando le parole: evidenti la posta in gioco e le possibili implicazioni, specie sul versante del terrorismo. Tanto più che il clima ambientale è sfavorevole: è ripartito il confronto Est-Ovest, Obama è al capitolo finale, l’Europa deve vedersela con la Brexit e la deriva autoritaria della Turchia di Erdogan, in Libia il governo parallelo di Tobruk non intende riconoscere l’esecutivo legittimo di Tripoli.

E poi ci sono i complicati rapporti con la Russia che, mentre continua ad essere in movimento in Siria, guadagna simpatie in Europa: la stessa Russia che ha definito privi di legalità i raid americani. Si può sempre osservare che, dopo la violazione delle regole internazionali in Ucraina e in Crimea, le credenziali garantiste di Putin sono ai minimi termini, ma è pur vero che senza Mosca e Tobruk la situazione sul terreno, già caotica, rischia di complicarsi ulteriormente. Tuttavia, condivisa o contestata (dai grillini e dalla sinistra), l’iniziativa americana è assai meno di una svolta decisiva, ben lontana dall’intensità in uso nel mattatoio balcanico quando la Nato martellava l’ex Jugoslavia al ritmo di un migliaio di obiettivi al giorno. Occorre recuperare il senso delle proporzioni e capire di cosa si parla: pochi e limitati (un mese) interventi chiesti dal governo legittimo, mirati sull’enclave di Sirte dove, mescolati alla popolazione, ci sarebbero dai 500 ai mille terroristi contro i 3.500 di qualche tempo fa, disposti a farsi uccidere piuttosto che arrendersi. Con una serie, anche qui, di controindicazioni: raid tardivi, che potrebbero rivelarsi inadeguati quanto ad efficacia antiterroristica dopo l’analoga esperienza in Siria e in Iraq. E, non ultima, l’eventualità dei «danni collaterali»: aggiungere vittime innocenti fra la popolazione e creare così le premesse per una reazione anti stranieri.

L’utilizzo delle basi ci può eventualmente esporre perché siamo una «portaerei naturale» nel Mediterraneo, ma è un vincolo diplomatico. Il passo improprio è stato compiuto un anno e mezzo fa quando, per un eccesso di protagonismo, si erano create eccessive aspettative su un’ipotetica leadership italiana, di un ruolo militare in prima linea: un compito insolito per la nostra cultura e tradizione, anche perché in Libia siamo un attore ex coloniale. Il nostro mestiere, proprio di un Paese-cerniera, è quello politico, civile e di supporto militare e lo si è visto bene quando l’Italia, tutelando l’interesse nazionale, ha svolto un’azione di primo piano nel costruire le condizioni per la nascita del governo di Tripoli.

Legittimo, quindi, che quando si affacciano opzioni belliche o semplicemente contigue ci siano tentennamenti, cautele e qualche fibrillazione: nulla di nuovo, anzi è bene e necessario che sia così. Resta comunque da verificare se i raid americani, nel quadro di un uso ragionato della forza, meritino il rumore ricevuto.

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