Idomeni a due passi
dalle nostre vacanze

Questa volta è stata dura, più dura del solito. Gli occhi e il cuore non reggono più a certe cose. Sarà che questa volta non mi ha aiutato molto a scacciare i fantasmi neanche l’ouzo con ghiaccio con i compagni di viaggio la sera tardi dopo una giornata a Idomeni, il campo profughi non autorizzato più grande d’Europa. Anzi per dirla tutta quell’ouzo mi è proprio andato di traverso. A Idomeni, sul confine tra la Grecia e la Macedonia, un confine sigillato da filo spinato e agenti in tenuta antisommossa, vivono da un mese ormai almeno 10 mila persone.

La metà – i dati sono dell’Unhcr – sono donne e bambini. È un enorme accampamento informale: questo significa che semplicemente le persone hanno montato lì delle tende da campeggio e ci si sono rifugiate in attesa che il confine si apra e possano proseguire il viaggio dalle guerre in Siria e dall’Afghanistan verso la Germania, il loro sogno di nuova vita. In una giornata di pioggia battente, la giacca antivento, i jeans e le scarpe da ginnastica sono completamente fradice, l’umidità risale nelle ossa, non vedi l’ora di rifugiarti in auto per riscaldarti un po’. Sento quel fango sotto le scarpe e lo vedo addosso a due bambini di 4 o 5 anni che trasportano in uno zainetto tre ciocchi di legno distribuiti da un’azienda di Atene. Serviranno per accendere un piccolo fuoco e riscaldarsi. Per sopravvivere a un altro giorno a Idomeni. Già perché di questo si tratta: in Europa, in questo momento, ci sono dei bambini, delle donne, dei giovani e degli anziani, dei disabili, che non vivono, ma sopravvivono come se intorno a loro ci fosse il deserto. Ma no. Intorno a loro non c’è il deserto. Idomeni è un villaggio sul confine ma collegato con l’autostrada a Salonicco.

Bastano tre quarti d’ora di auto per trovarsi avvolti dalla brezza marina, passeggiare sul lungomare, farsi avvolgere dalle luci dei bar e dei ristoranti, dal vociare dei giovani che popolano una città di un milione e mezzo di abitanti, votata al turismo e agli studi universitari. Seduta in uno dei locali, servono l’ouzo fresco, pane caldo, e tzatziki, proprio come quando sono in vacanza in questa bella Grecia. Si chiacchiera e si cerca di scacciare il ricordo di quella donna in fila per un sacchetto di pane distribuito dalla Caritas Hellas, con i suoi due bambini. C’è solo un sacchetto per famiglia. Lei lo prende e lo dà a uno dei suoi figli. L’altro inizia a piangere. Lei lo abbraccia e soffoca il pianto sul ventre. No questa volta i fantasmi non si riescono a scacciare neanche con una buona dose di ouzo.

Eppure di povertà e drammi purtroppo ne ho visti parecchi in giro per il mondo. E basta fare un giro alla stazione quando si esce dal giornale per non privarsene neanche a Bergamo. Però qui fa più male, se si può dare una misura a queste cose. Forse perché se un confine è stato abbattuto in questi ultimi tempi di frontiere rialzate, se un muro è miseramente crollato a Idomeni, è quello che ci rendeva invisibile o più accettabile la diseguaglianza tra noi Europa, e loro, gli altri. Qui la diseguaglianza è sotto i nostri occhi, a tre quarti d’ora di auto dalle nostre vacanze. Non ci sono più alibi. Una calamità in Indonesia, un terremoto ad Haiti, una guerra in Eritrea lasciano macerie e povertà allo stesso modo. Ma restano comunque lontani. Non ce ne possiamo occupare noi, ci diciamo, non possiamo risolvere noi tutti i problemi del mondo. Se alla mensa in stazione arrivano anche le famiglie di disoccupati sappiamo che c’è sempre qualcuno che se ne fa carico. Possiamo dare un’offerta e sentire di aver fatto la nostra parte. Ma qui, qui il muro è un velo che si squarcia in questa Pasqua.

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