Il difficile equilibrio
dei partiti anti-sistema
per la governabilità

Tra le molte novità introdotte dal primo governo populista d’Europa una non è stata sinora sufficientemente evidenziata. Non s’era mai visto un governo interamente nelle mani dei partiti estremi. Sia nelle democrazie rette da sistemi proporzionali (come l’Italia tra il 1945 e il 1992) che in quelle maggioritarie (l’esempio d’obbligo è l’Inghilterra) il governo è stato di regola appannaggio del centro: vuoi dei partiti cosiddetti «moderati» o di partiti che da posizioni estreme si moderano appunto per candidarsi a governare: partiti che sono espressione politica dei ceti difensori dell’ordine o comunque nemici delle avventure politiche. Memorabile lo slogan con cui la Dc degli anni Cinquanta si presentò agli elettori. «Progresso senza avventure» fu il suo eloquente messaggio a quanti – la maggioranza degli italiani – temevano che la «cortina di ferro» si spostasse oltre le Alpi. Assistiamo ora a una situazione assolutamente inedita, ossia a partiti anti-sistema (Lega e M5s) che si sono posti al centro del sistema.

La spiegazione dell’attuale sovvertimento dei ruoli è facile da trovare. C’è stato un terremoto sociale e i ceti medi, tradizionali puntelli dell’ordine, sono diventati nemici dell’ordine. Difficile restare fautori del sistema se il sistema, invece che assicurare sviluppo economico e progresso sociale, procura perdita di lavoro, di reddito, di certezze, persino di speranza nel futuro.

Resta da capire come un sistema si possa reggere su partiti anti-sistema. Per il momento un equilibrio s’è trovato. Tutto lascia intendere, però, che sia un equilibrio precario e traballante.

Lega e Cinquestelle si stanno comportando da partiti più di lotta che di governo. Continuano a rilanciare le parole d’ordine con cui hanno costruito il loro successo elettorale. Quanto ai fatti, invece, privilegiano provvedimenti o a costo zero (lotta all’immigrazione, allargamento della legittima difesa, lotta al precariato, contrasto alla genitorialità gay) o a costi differiti (blocco Tav, Tap, ri-nazionalizzazione di Alitalia e Ilva) rinviando a tempi migliori la realizzazione delle promesse più onerose: flat tax, reddito di cittadinanza, abolizione della Fornero.

Non c’è chi non noti il corto respiro di tale tattica. Delle due l’una: o si rispettano i vincoli di bilancio ma si tradiscono le generose promesse fatte in campagna elettorale (e riconfermate nel famoso «contratto di governo») o si accetta di correre l’avventura di oltrepassare le Colonne d’Ercole del debito pubblico e di affrontare il mare aperto di una spesa extra deficit, nel qual caso però ci si espone alla scontata burrasca dei mercati finanziari.

Contrastare i populisti in teoria sarebbe compito precipuo delle forze di centro. Peccato che queste siano ridotte a mal partito: deboli, smarrite, senza leader, senza idee e senza più il proprio popolo. Mancando un’opposizione capace di contrastare il passo alla maggioranza, sono gli interessi lesi o anche solo minacciati a creare imbarazzo, qualcuno spera contrasti nel governo. A remare contro sono stati per primi Confindustria e le associazioni imprenditoriali del Veneto, il bacino elettorale privilegiato della Lega.

È da queste contraddizioni interne alla maggioranza che le minoranze (Forza Italia e Pd) possono ripartire per evitare che i ruoli di maggioranza e opposizione non restino chiusi all’interno del perimetro populista. Sempre che ne siano capaci.

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