Il discorso di Mattarella
un ritorno alla realtà

Un ritorno alla realtà, con i piedi per terra: così il discorso del presidente Mattarella, il primo a Camere chiuse, con un premier uscente eppure governante e al via di una campagna elettorale più cruciale del solito, tanto più che le elezioni «aprono, come sempre, una pagina bianca». Un cenno che può apparire ovvio, ma proprio questa sottolineatura segnala la delicatezza di un passaggio tutto da scrivere, peraltro in modo collettivo, con un’«ampia partecipazione».

Mentre il dibattito pubblico convive fra un certo ottimismo di maniera e un eccesso di scenari apocalittici, il capo dello Stato vola alto, scegliendo il linguaggio della verità. Lo fa, in una manciata di minuti e con uno sguardo sul futuro, ricordando i 70 anni della Costituzione («la nostra casa comune») e, come spesso è avvenuto da quando è al Quirinale, richiamando quella che dovrebbe essere la priorità civile e politica: «Il lavoro resta la prima, e la più grave, questione sociale. Anzitutto per i giovani, ma non soltanto per loro. È necessario che ve ne sia in ogni famiglia». Il lavoro come cittadinanza e i giovani sono al cuore della pedagogia dell’inquilino del Colle, questioni che si ripropongono irrisolte proprio ora che l’Italia ha agganciato la ripresa, un cambio di passo che tuttavia non è ancora penetrato nelle pareti domestiche, nel vissuto quotidiano.

Non siamo all’anno zero, qualche risultato concreto è stato portato a casa, c’è un milione di posti di lavoro recuperati, eppure l’occupazione deve essere avvertita come la principale emergenza di una società in grado di organizzare il proprio futuro nella stabilità dei percorsi individuali. E proprio l’orizzonte del futuro, avverte il presidente, dovrebbe rappresentare il tema centrale di questa campagna per il voto: i problemi, quindi, sono superabili, ma ognuno faccia la sua parte. A cominciare dai partiti, intrappolati in un eterno presente, chiamati a misurarsi con le novità di un mondo che cambia in fretta. Una politica che ha «il dovere di fornire ai cittadini proposte adeguate, realistiche e concrete». Nella logica stringente di Mattarella tutto si tiene, ciascuna casella si lega alle altre e quei tre aggettivi spesi dal capo dello Stato sono la cassetta degli attrezzi per un’offerta politica credibile che dovrebbe accettare la fatica del realismo. Su questo terreno alternativo alla demagogia si gioca la maturità di una classe dirigente. Non è un’Italia in forma, al di là del rientro statistico di alcuni fondamentali, quella che va al voto, afflitta da uno stato d’animo rancoroso alimentato peraltro da un’interminabile maratona elettorale, la cifra esistenziale di un Paese con la febbre. Un risultato elettorale, poi, che si anticipa ingovernabile nel mai concluso tragitto fra transizione e non transizione: almeno a detta dei più, e chissà se sarà proprio così.

Una campagna che si annuncia tossica, inquinata da effetti speciali e da miraggi confezionati che danno il benvenuto al tempo delle fiabe: soldi per tutti e tasse per nessuno. Se n’è accorto, bontà sua, lo stesso Grillo che, titolare di una creatura in via di mutazione, dice che «stiamo passando la fase da bambino e stiamo diventando adulti». Un già visto d’insieme, in sostanza, replicato però come normalità velenosa in un clima di assuefazione generale. Si capisce così l’urgenza istituzionale del presidente Mattarella per un colpo d’ala della politica perché ritrovi la dimensione della misura, di una relazione corretta fra il dire e il fare, fra quel che promette e ciò che è nelle condizioni di realizzare. Lo stile inaugurato dal governo Gentiloni nel segno della sobrietà dice, al di là delle valutazioni di merito, che non è più il tempo dei salvatori della patria e degli imbonitori. Possiamo accontentarci, anche nell’era delle emozioni incontrollate, di una «normalità operosa» da anti eroi che – proprio perché tale – può risultare rassicurante e ridefinire il senso comune.

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