Il divorzio tra fede
politica e portafogli

Scappare dall’Europa è la grande tentazione. Il no all’euro sulle felpe della campagna elettorale non è scomparso dalla memoria collettiva. Giunti al governo gli euroscettici ci hanno anche provato: hanno riempito di improperi Bruxelles e cercato lo scontro sulla politica economica. Ma adesso sono lì sotto minaccia di procedura di infrazione per debito eccessivo e non sanno come uscirne. Sono soli e hanno portato il Paese all’isolamento. Non c’è un governo su 27 che abbia espresso solidarietà a Roma. Nemmeno Tsipras, che si scusa, e ammette candidamente: diversamente non si può. Le regole si cambiano da dentro e non da fuori. Ma il silenzio più assordante è quello dei Paesi cosiddetti sovranisti, quelli che dovrebbero essere benevoli verso il primo governo populista di un Paese fondatore dell’Ue e sono invece i più intransigenti. L’ungherese Orban, l’austriaco Strache interlocutori politici di Salvini sino a ieri, adesso muti. Succede quindi al governo italiano quello che già si è compiuto tra i suoi elettori: il divorzio tra fede politica e portafogli.

L’ ultima asta di titoli pubblici riservata ai piccoli risparmiatori è andata semi-deserta mentre crescono i depositi sui conti correnti. Più di mille miliardi parcheggiati spesso a interesse zero con costi di mantenimento ma almeno non a rischio. Avanza tra gli imprenditori e la borghesia produttiva, anche leghista, il partito del Pil, cioè della crescita. Perché grande è l’incertezza sul cielo della Repubblica. Come i sondaggi rivelano il cuore batte ancora per il governo della rivoluzione lega-pentastellata e anche per il ministro dell’Interno Salvini ma «tengo famiglia» è una parola chiave nell’immaginario nazionale. Lo stesso potrebbe dirsi per i singoli Paesi dell’ Unione che vedono nelle avventure politiche italiane più un pericolo per la stabilità che un’occasione di cambiamento. E non potrebbe essere diversamente. Si guardi il recente rapporto della Commissione europea sui legami commerciali ed economici tra i Paesi membri dell’Ue. La Germania, che è la prima economia manifatturiera del continente, con le sue esportazioni crea 6,8 milioni di posti di lavoro in Germania ma poi a cascata 270mila in Polonia, 160mila in Italia e 140mila in Francia.

Questo spiega perché all’indomani dello scandalo diesel di Volkswagen, dopo titoli di indignazione la stampa continentale ha portato la notizia negli interstizi delle pagine interne. Dare addosso al primo della classe è sempre un piacere ma se poi le ditte fornitrici di casa propria vanno in cassa integrazione per mancati ordini la «Schadenfreude» diventa autolesionista. Del resto anche in Italia l’export crea 2,7 milioni di posti di lavoro ai quali vanno aggiunti altri 500mila generati dalle esportazioni degli altri Paesi dell’Unione nel resto del mondo. Se l’Italia dovesse rendere non appetibili le commesse estere destinate alle sue aziende risulterebbe una perdita del 13% sui posti di lavoro attualmente attivati. A sua volta l’export italiano verso Paesi extra Ue contribuisce a creare 462mila occupazioni nel resto dell’Unione. Victor Orban, il primo ministro ungherese, è fortemente critico del governo Merkel in tema migrazioni ma sul piano economico non si discosta da Berlino. Troppo integrate sono le economie per assecondare i piani di chi vorrebbe far saltare l’egemonia tedesca al di fuori delle regole europee. Che la Germania sia il primo Paese a trarre vantaggio da questa Europa è fuori discussione. Pensare di poterla contrastare aumentando il debito in casa propria e senza avere certezze per una crescita stabile e duratura è avventurismo. Ed è il motivo perché l’Italia in Europa è sola.

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