Il governo in campagna
elettorale, ora i fatti

Prime ore di governo, prime polemiche. Con una premessa: siamo in campagna elettorale, si sta per votare in settecento Comuni, è inevitabile che i neo ministri, e soprattutto i leader politici dei due partiti di maggioranza, girino l’Italia a far comizi e cavalchino i loro destrieri propagandistici per aumentare i voti. Naturalmente, l’auspicio è che, una volta votato, si calmino, rinuncino per un po’ ai selfie e alle dirette Facebook e si siedano alla scrivania a lavorare e a studiare carte che non conoscono: in questo governo sono in pochissimi ad avere una certa esperienza, la maggioranza è fatta di matricole. Se non vorranno essere preda dei capi di gabinetto e dei direttori generali, i ministri dovranno dedicare il loro tempo soprattutto a capire come funzionano le cose.

Che la propaganda di queste ore possa prendere la mano lo dimostra il caso Salvini-Tunisia. Precipitatosi a Pozzallo appena tolta la giacca del giuramento, Salvini non ha esitato ad annunciare che per gli immigrati «la pacchia è finita». Poi, e soprattutto, se l’è presa con la Tunisia per dire che, non essendo quello un Paese in guerra, non può mandarci indiscriminatamente i suoi fuggitivi «tra i quali anche i galeotti». Il governo di Tunisi, di cui siamo partner da tempi immemorabili, se l’è presa non poco, ha convocato il nostro ambasciatore e ha espresso stupore. Insomma, un incidente diplomatico che si poteva facilmente evitare. Ma Salvini è fatto così e dovrà impegnarsi per entrare nel ruolo del ministro dell’Interno, forse l’incarico più delicato, difficile, controverso di ogni governo. «Non potrai fare proclami ogni giorno» gli ricorda Roberto Maroni che entrò al Viminale nella fase ruggente della Lega bossiana e ne uscì tra molti complimenti per lo standing dimostrato.

Altra polemica, quella sulla flat tax. Uno degli economisti leader della nuova maggioranza, il leghista Alberto Bagnai (molto più anti-euro di Paolo Savona, per intenderci), candidato ad essere sottosegretario a via XX Settembre accanto al ministro tecnico Giovanni Tria, ha confessato che la flat tax si applicherà nel 2019 alle imprese e solo nel 2020 alle famiglie. Insomma l’annuncio di un rinvio che ha fatto partire l’attacco del Pd e di Forza Italia alla velocità di un siluro. I democratici hanno ricordato al professore che la flat tax sulle imprese non c’è alcun bisogno di introdurla perché è già vigente da tempo ed è stata introdotta dal governo Renzi; mentre Gasparri e Brunetta non hanno lesinato il sarcasmo nel sottolineare che la prima promessa della campagna elettorale è stata archiviata prima ancora che il governo riceva la fiducia del Parlamento.

In tutto ciò c’è poco da meravigliarsi. Un po’ il clima elettorale, dicevamo, un po’ l’inesperienza, un po’ la voglia straripante di sottolineare il traguardo raggiunto, condizionano questo avvio della legislatura, perdipiù dopo tre mesi di trattative estenuanti. Il governo lo si dovrà giudicare più in là, quando le parole necessariamente dovranno cedere il passo ai fatti. E ai compromessi. Tanto per dire: come si accorderanno leghisti e grillini sull’Ilva visto che i primi la vogliono mantenere attiva e i secondi la vogliono chiudere? E sulle grandi opere, come si farà? E da dove verranno presi i miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva? Bisognerà subito attivare la camera di «conciliazione» tra i due partiti per trovare delle mediazioni. Senza dimenticare che al Quirinale c’è un signore che, come non si è fatto imporre il nome di Paolo Savona all’Economia (beccandosi persino la minaccia di impeachment) allo stesso modo non firmerà, come prescrive la Costituzione, disegni di legge privi di copertura finanziaria.

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