Il libero mercato
ha ancora futuro

Col motto «America first», Donald Trump è riuscito a convincere gli elettori che il solo modo per rendere grandi gli Stati Uniti d’America sia quello di difendere le imprese nazionali dalla concorrenza estera. Da qui l’annuncio di «misure protezionistiche» come dazi doganali, tasse sul valore o sulla quantità delle merci importate, imposizione di certificazioni di sicurezza come condizione al permesso d’importare e quant’altro. Il fatto che idee simili siano accolte da vari consensi in molti altri Paesi, tra cui il nostro, merita qualche riflessione.

Va ricordato, anzitutto, che il protezionismo è vecchio quanto il mondo. La sua prima consacrazione teorica ci fu nel XVII secolo con il «mercantilismo», che mirava al rafforzamento dell’economia interna con la massima limitazione delle importazioni. Nel secolo XVIII, con la prima rivoluzione industriale e l’affermazione nel mondo occidentale del «capitalismo», che assumeva come linea guida la libera concorrenza e il libero mercato, il protezionismo rivestì un ruolo più marginale e riguardò prevalentemente interventi a protezione di nuove aziende o di aziende in temporanea difficoltà. Riprese centralità dalla fine del diciannovesimo secolo, a sostegno dell’economia di molti Paesi coinvolti in una pesante crisi economica che, iniziata in quegli anni, proseguì fino alla vigilia della Prima guerra mondiale raggiungendo l’apice con la grande crisi di Wall Street del 1929. Per superarla, si rese necessario ovunque un incisivo intervento dello Stato nell’economia e pesanti misure protezionistiche che portarono in alcuni casi, come il nostro, a forme di «autarchia». Nel secondo dopoguerra riprese vigore la filosofia della concorrenza e della libertà totale degli scambi, secondo le linee guida tracciate nella conferenza di Bretton Woods del 1944. Interventi protezionistici si resero ancora necessari per contrastare le crisi petrolifere del 1973 e del 1978, ma proseguì ovunque l’integrazione dei mercati attraverso accordi multilaterali e, per quanto concerne l’Europa, con la progressiva liberalizzazione del mercato interno.

Dopo la crisi economica degli ultimi anni - determinata da un rapido processo di «globalizzazione» dei mercati, che ha accentuato la finanziarizzazione dell’economia, alimentato l’indebitamento e penalizzando enormemente le economie tecnologicamente meno avanzate - hanno ripreso vigore qua e là spinte protezionistiche. Il più autorevole sostenitore del «neoprotezionismo» è il premio Nobel Paul Krugman il quale ritiene che, in particolari situazioni, interventi statali di sostegno all’economia, pur ricadendo fiscalmente sui contribuenti nazionali, porterebbero ad un’incisiva riduzione della disoccupazione e ad una nuova crescita economica. Anche per Krugman, però, il ricorso a politiche protezionistiche ha obiettivi di breve periodo, finalizzati a ridare vigore all’economia di mercato. Nessun Paese, del resto, può oggi sopravvivere contando solo sulle proprie risorse economiche e rinunciando agli scambi con altri Paesi. Con riferimento alle produzioni industriali di massa, non c’è più nella maggioranza dei casi un prodotto che inizi e finisca il proprio ciclo produttivo nello stesso Paese. Per fare solo un esempio, l’assemblaggio della produzione a Tolosa dell’Airbus - il consorzio europeo che fabbrica aerei - rappresenta solo il 5% del valore totale dell’aereo.

Una qualsiasi macchina, dalla lavastoviglie, al frigorifero, all’autovettura, al televisore non è il risultato di una produzione esclusivamente nazionale, bensì la conseguenza di una specializzazione dei mercati e della maggiore cooperazione internazionale basata sullo scambio. Ciascun Paese si specializza sempre più nelle risorse nelle quali ha un «vantaggio comparato» verso gli altri (David Ricardo 1772-1823), partecipando così con minori costi complessivi al risultato finale. Gli scambi internazionali, oltre la dimensione locale economica, sono ormai parte integrante dello sviluppo economico di ogni Paese, avendo largamente contribuito a creare ricchezza, a diminuire sensibilmente il prezzo dei prodotti e ad accrescerne la qualità. La protezione di industrie fuori mercato, al solo scopo di difendere l’occupazione, provoca aumento dei prezzi, rischia d’incrinare pesantemente i rapporti politici con altri stati e, soprattutto, toglie dinamicità al sistema economico, rendendolo arretrato rispetto agli altri. È nella libertà degli scambi, nella ricerca della qualità dei prodotti e nella sperimentazione di tecnologie sempre più avanzate che si gioca il futuro di ogni economia e la prosperità di ogni Paese.

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