Il nostro secondo
nome è Alessandro

Secondo il filosofo francese Pierre Manent nelle città di oggi ci sentiamo tutti un po’ come delle sfere che rotolano incessantemente sfiorandosi e talvolta scontrandosi a vicenda, ma senza veri e propri incontri. Corriamo, ci affanniamo dietro una quantità di cose, ed in definitiva viviamo come se non abitassimo davvero in nessun luogo. Così spaesati, ci troviamo sempre compresi in un dialogo interiore a sfondo psicologico (mi piace, non mi piace) e ciò indebolisce la vita comune, rendendo fragile ed incerta la nostra identità.

Quando abbiamo dei problemi con gli altri - con un negoziante, un collega, ma anche una moglie ed un marito - mettiamo in atto la sola tattica che ci viene bene: lo «slegame», il tirarci fuori. Perché abbiamo confuso la libertà con l’autonomia e quest’ultima con l’idea che rimanere in compagnia di noi stessi sia, tutto sommato, la migliore condizione dell’esistenza. In tal modo, nella città degli individui sradicati, l’anima è posta in un particolare stato di sofferenza, presa da un sentimento inedito: un misto di presunzione, di sollievo per l’assenza di vincoli che ci impongano di fare i conti con gli altri, ma sullo sfondo di una solitudine conseguita per eliminazione progressiva dei legami.

In realtà noi siamo profondamente costituiti da una varietà di appartenenze: di sangue, del luogo, degli affetti, delle attività di lavoro e di quelle volontarie. Pur se indeboliti, perché poco consapevoli, questi legami sussistono in noi e ci caratterizzano, anche se spesso ci manca la capacità di riconoscerli. È in questo stato d’animo che giunge il giorno della ricorrenza del santo patrono, che non sappiamo bene come gestire. Proviamo a farlo insieme, con l’aiuto di tre parole.

Un patrono è una terra. Egli indica non un «luogo» qualsiasi, ma il posto particolare in cui abitiamo. La terra è parte del nostro essere e di essa è impregnata la nostra personalità. È un’appartenenza che viene prima della nostra volontà, essendo connaturata alla nascita. I romani usavano l’espressione genius loci per indicare che ogni luogo presenta uno spirito particolare che informa i suoi abitanti. Quello bergamasco è segnato dall’operosità e dalla capacità di reggere la fatica, ma anche da un cuore generoso, pur se poco visibile esteriormente («sóta la sènder brasca»), che si mostra nei piccoli e grandi gesti di solidarietà.

Un patrono è un simbolo che indica un valore. Alessandro era il portabandiera (vessillifero) della legione romana tebea di stanza a Milano, che a causa della sua fede subì il martirio nel 303 dopo Cristo nell’antica Bergomum. Sia il vessillo, sia la morte, indicano la fedeltà ad un valore superiore a quello della sua stessa vita, una cosa piuttosto difficile da capire oggi, ma perfettamente comprensibile per i genitori, il cui amore li porta ad offrire se stessi per il bene dei propri figli. Pure la famiglia umana, che oggi sembra un insieme caotico di vicende individuali, in realtà è fondata su valori decisivi - in primo luogo l’amore fraterno - che la alimentano e che richiedono una simile dedizione.

Un santo patrono è un aiuto, una medicina in grado di sanare le malattie dell’anima. Il disincantamento è una di queste, e si contrae quando si vive come se l’esistenza fosse determinata solo dalla volontà e dal caso. Una visione decisamente limitata perché nella realtà sono celati eventi che non dipendono né da noi né dal fato, essendo invece stati di grazia che Dio continua a disporre per il nostro bene. Sono situazioni ed incontri, ordinari e straordinari, spesso imprevisti, nei quali è nascosto un significato di salvezza, di cui abbiamo assolutamente bisogno per vivere umanamente. Sant’Alessandro è un dono di Dio che ci viene proposto ogni anno per ricordarci la grandezza ed il mistero della vita umana ed il significato dell’essere popolo, per indicarci come ci si deve condurre per essere all’altezza dei nostri predecessori.

Questi tre motivi ci ricordano che tutti abbiamo Alessandro come secondo nome, e che oggi è la nostra festa speciale.

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