Il pericolo sociale
e i tempi del diritto

La sparatoria avvenuta all’inizio della settimana a Trescore, nella quale due «famiglie» rom si sono affrontate, dando vita a scene degne del più classico dei film western, ha un risvolto che merita qualche riflessione. Sulla faida tra i gruppi rom la magistratura era intervenuta da tempo. La Procura di Bergamo aveva chiesto la «sorveglianza speciale» per ben venti appartenenti alle due famiglie. Il Tribunale di sorveglianza l’ha disposta soltanto per sei di essi.

Contro il provvedimento avevano fatto ricorso sia la Procura, sia la difesa. La Corte di appello di Brescia ha dato pienamente ragione alle argomentazioni di quest’ultima, annullando tutte le misure cautelari. Presumibilmente nella convinzione che non esistesse la pericolosità sociale degli indagati, uno dei quali era stato ammesso anche ai servizi sociali. Per ironia della sorte la decisione dei giudici di Brescia, resa nota ieri, è stata presa a cavallo dello scontro a fuoco di Trescore. Un curioso bisticcio di tempo e di pronunce dei giudici, che desta qualche legittima perplessità.

La vicenda, al di là delle conseguenze che potevano essere ancor più gravi di quanto non siano state, pone sul tappeto il problema del rispetto delle regole e quello delle capacità di giudizio dei magistrati. Libertà e tolleranza sono due dei pilastri delle società democratiche, quelle che – con termine in voga – si definiscono società aperte.

L’Italia, sotto questo profilo, è tra quelle che ha tradizionalmente coltivato valori comunitari molto forti. Per retaggio culturale il nostro popolo, nella sua stragrande maggioranza, ha avuto sempre un atteggiamento di apertura verso «l’altro», verso il «diverso». Con scelte che hanno accomunato valori religiosi e laici. Anche nei confronti delle comunità rom l’atteggiamento prevalente è quello del rispetto della diversità. A esse sono pienamente riconosciuti i diritti propri di ogni cittadino della nostra Repubblica. Nondimeno, tutti devono essere consapevoli dei doveri che permettono di essere e dirsi cittadini.

Alcuni giorni fa il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, intervenendo sulla delicatissima questione del ruolo che hanno le organizzazioni non governative impegnate nel soccorso alla moltitudine di disperati che fugge dalla miseria in cerca di una vita migliore, ha chiaramente affermato che va lodata la meritoria azione umanitaria svolta dalle Ong, aggiungendo però che essa deve essere compiuta nel rispetto delle leggi italiane e internazionali.

Analogamente, si può dire del caso che ha visto protagonisti esponenti delle comunità rom presenti nel bergamasco. Nessuno intende demonizzare quelle comunità nel loro complesso, sarebbe sbagliato e contrario ai nostri principi etici, prima ancora che alle nostre leggi, perché la responsabilità penale è individuale. Ciò nonostante, lo Stato ha il diritto/dovere di garantire la sicurezza. Intesa come diritto di libertà, sia di quelle comunità, sia del resto della collettività. Omertà, collusioni, coperture, omissioni, sono esse stesse reati e come tali andranno perseguiti.

Il caso mette in questione anche il ruolo che ha avuto la magistratura. Essa «costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», prescrive la nostra Costituzione, affermando che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. I due principi chiariscono senza possibilità di dubbio che l’attività della magistratura deve svolgersi senza altri vincoli che non siano quelli delle norme.

Nel contempo, i giudici ai quali è rimesso un ruolo così delicato (disporre limitazioni della libertà personale, comminare pene o assolvere gli imputati) dovrebbero emettere ogni decisione con grande ponderazione, proprio perché svincolati da «ogni altro potere» e vincolati unicamente al rispetto delle leggi. Tutti possono sbagliare, errare humanum est, insegnavano i latini.

Ma occorre considerare che gli errori dei giudici hanno ricadute estremamente pesanti sulla vita altrui. Alla loro capacità, alla valutazione accurata di ogni singola situazione, andrebbe accomunato un particolare equilibrio di giudizio. Elemento che esige una specifica attitudine caratteriale e psicologica. Giudici si diventa, ma un po’ si nasce.

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