Il premier, i giovani
E quel «pane a vita»

Non ne avevano bisogno i giovani italiani che Matteo Renzi ricordasse loro che il posto fisso non c’è più. Così come non c’era necessità che un altro premier, Mario Monti, li invitasse a non immaginare di passare tutta una vita nella stessa azienda, «perché il posto fisso è noioso».

Di dichiarazioni come queste non c’è alcun bisogno per la semplicissima ragione che i ragazzi queste cose le sanno benissimo. Il mondo del posto fisso, del «pane a vita» (per citare il titolo di un bellissimo film), la stragrande maggioranza di loro l’ha conosciuto solo attraverso i racconti dei genitori o dei nonni, nei documentari e al cinema.

Non hanno mai visto con i propri occhi, i nostri ragazzi, la fila interminabile delle 127 degli operai che, all’alba attraversavano, da Nord a Sud, la Torino degli anni Settanta per iniziare, alle sei, il primo turno a Mirafiori. E non hanno mai assistito alla premiazione degli «anziani Fiat», con tanto di medaglia appuntata dall’Avvocato Agnelli sul petto di impiegate commosse, sulla soglia del pensionamento dopo cinquant’anni passati a fare lo stesso lavoro, casomai nello stesso ufficio, certo sempre per «mamma Fiat». Né hanno la memoria dei grandi conflitti sociali, delle lotte operaie, degli autunni caldi, degli assembramenti di migliaia di tute blu nei piazzali antistanti i grandi stabilimenti industriali.

No, i ragazzi quel mondo, del quale il posto fisso era croce e delizia, sicurezza e tormento garantito, culla e trappola, non lo possono rimpiangere. E non solo perché non ne hanno memoria. Ma anche perché, almeno per molti di loro, per quelli che hanno più capitale culturale, la «fissità» non è più un valore assoluto. Sono i giovani che si spostano agevolmente e piacevolmente nel mondo tanto di più dei loro genitori, quelli che sono serenamente in grado di chiudere relazioni sentimentali ed amicizie e di aprirne delle altre. Senza tragedie, senza le conseguenze drammatiche di un tempo.

La «liquidità» tanto esecrata è per loro divenuta anche un valore: significa stare in allerta, coltivare la virtù del dubbio sistematico, verificare che i legami, tutti i legami, siano ancora vivi e abbiano ragion d’essere. E se no cambiarli, senza fermarsi mai, senza darsi per vinti o farsi soggiogare dal destino. Lavorano incessantemente alla costruzione delle loro biografie questi giovani: percorsi tanto più ricchi quanto più articolati, personali, vissuti, autentici. È certo uno stress ma al tempo stesso è una vocazione, un destino.

Persone così non si fanno angosciare dalla scomparsa del posto fisso. Quello che piuttosto li inquieta fino all’angoscia è l’assenza totale di protezione sociale, l’assenza di reti che proteggano i loro voli, il venir meno dello stato sociale. Li sconvolge l’idea che, se non rinnovano loro il contratto di lavoro o se li licenziano senza una giusta causa perché non ci sarà più l’articolo 18 a proteggerli, non avranno di che sostenersi, dovranno tornare nella casa dei genitori dalla quale sono appena usciti o posticipare la nascita di un figlio. Li preoccupa affacciarsi in un mondo del lavoro dominato dalla guerra di tutti contro tutti per aggiudicarsi le scarse opportunità rimaste: guerra tra le generazioni, guerra all’interno delle generazioni.

Per sgomitare, per sopravvivere, sempre di più all’insegna del «mors tua vita mea». Li terrorizza non avere di che vivere nei periodi di transizione da un posto ad un altro, non la possibilità di cambiare lavoro. E non li consola affatto l’idea, sempre più popolare, che per dare qualche garanzia in più a loro sia necessario annientare le certezze dei loro genitori, soprattutto se questi ultimi non sono ricchi, se vivono di una pensione appena decente, se hanno superato una certa età e non sono così facilmente riciclabili sul mercato del lavoro.

Se questa è la situazione, i provvedimenti che si profilano all’orizzonte con il Jobs Act sono pannicelli caldi: qualche euro in più per i sussidi di disoccupazione, qualche garanzia minima supplementare in cambio di una demolizione sistematica delle conquiste sociali di mezzo secolo. Se questa è davvero la situazione, il nostro Stato Sociale andrebbe sul serio ripensato daccapo: per sostenere la «flessibilità buona» alla quale i giovani aspirano attraverso una riduzione secca di diseguaglianze sociali divenute intollerabili per una democrazia. Questo ci chiedono tanti ragazzi. Questo dobbiamo fare insieme a loro.

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