Il sacco di Roma
vergogna di Stato

Occorre alzare immediatamente l’asticella dei controlli», ha affermato il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone. Osservazione ineccepibile, quella del magistrato che si sta adoperando meglio di quanto si sia fatto finora per arginare e contrastare un fenomeno - lo stretto intreccio tra affari e istituzioni, tra politica e malavita - che sembra non avere confini.

I provvedimenti presi ieri l’altro dalla Procura di Roma superano ogni più pessimistica previsione riguardo all’estensione e alla gravità della vicenda. Viene alla mente il titolo di un celeberrimo e vibrante film di Francesco Rosi «Le mani sulla città», riferito al saccheggio urbanistico di Napoli perpetrato negli anni del dominio di Achille Lauro. Anche qui siamo al saccheggio.

Gli interessi di una cricca ai quali si piega non soltanto la società civile, ma si sottomettono le stesse istituzioni. Il «Sacco di Roma» fa emergere proprio questo profilo. Non inedito, non nuovo, ma non per questo meno impressionante. Nella storia della Repubblica è esistita sempre una parte della politica collusa con le mafie e le lunghe scie di sangue che ne hanno segnato le vicende (con magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine, politici non arrendevoli vittime del fuoco e delle bombe) rappresentano il disonore che ci portiamo appresso nel mondo.

A Roma si è scoperchiato un verminaio di malaffare che ha corroso alle fondamenta le istituzioni della città e che rischia di diventare una valanga capace di seppellire anche chi opera per cambiare questo stato di fatto. Gli aspetti più devastanti sono la diffusa permeabilità del ceto politico capitolino e il ribaltamento di ruolo tra l’organizzazione criminale che gestisce il malaffare e i personaggi politici coinvolti in esso. Alla ribalta delle cronache giudiziarie vi sono corrotti di tutte le forze politiche che negli scorsi due/tre decenni si sono alternate alla guida del Comune e della Regione. Tra queste forze politiche nessuna risulta immune. Un panorama rabbrividente che delinea un quadro agghiacciante nella sua semplicità: in tutti i partiti c’è chi è dedito (o almeno accetta di partecipare) alla spartizione di soldi pubblici per proprio tornaconto. Sull’altro fronte, ma accomunato dai medesimi intenti malavitosi, la potente organizzazione che tutto corrompe e tutto si propone di gestire attraverso le mazzette e le pressioni. Ancora non vi sono stati morti da attribuire a questo giro vorticoso e generalizzato di corruzione. Ma forse soltanto perché - come urlava il malavitoso Carminati al telefono - «questi devono obbedire».

E finché ciò accade, il meccanismo funziona a meraviglia. Nel mezzo alcuni pezzi di quella che pietosamente ci si sforza di chiamare ancora «società civile»: cooperative di lavoro e di impresa che dovrebbero avere nel loro Dna il pubblico benessere e non il profitto. Ma qui il profitto, quello basato sulle regole del mercato e sul rispetto delle leggi, non c’entra nulla. Qui siamo nel far west, in luoghi nei quali le regole valgono per gli altri, per gli imbecilli che si ostinano a rispettarle. Non per chi ha modi più spicci e ambizioni più alte.

«Capitale corrotta, Nazione infetta», è un altro terribile luogo comune che tristemente ha avuto costantemente un fondo di verità. Rispetto alla gravità della situazione emerge in tutto il suo avvilente profilo l’inadeguatezza delle misure prese per contrastare il fenomeno. Per voltare pagina occorre partire da un assunto: il processo di decentramento, iniziato negli anni ’70 e accelerato negli anni ’90, ha prodotto effetti diametralmente opposti a quelli previsti. Invece di amministrazioni più vicine ai cittadini, abbiamo amministrazioni che si sono servite dell’allentamento dei controlli statali per allargare a dismisura gli spazi di malamministrazione. E allora è indispensabile ripartire da ciò che chiede Cantone: maggiori e più severi controlli.

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