Il sogno di Reem
è il sogno di tutti

Abbiamo ancora tutti negli occhi il video con il dialogo tra Angela Merkel e Reem, la giovane immigrata palestinese, rifugiata in un campo profughi in Libano e residente da quattro anni a Rostock in Germania.

Ne ha scritto il direttore Giorgio Gandola ieri, ma l’onda emotiva di quello scambio sincero e crudele si sta dimostrando molto lunga. Ci sono infatti alcuni aspetti che il video porta alla conoscenza di tutti e che hanno un qualcosa di destabilizzante: come se fosse stato messo a nudo un meccanismo ad excludendum crudele di cui non avevamo esatta percezione. Perché questo è accaduto? Penso che, a differenza di quanto con più facilità si potrebbe dire, la destabilizzazione non sia stata generata dal comportamento della cancelliera, ma da quello di Reem. È lei il fattore che ci ha preso un po’ di sprovvista, e non solo per la semplice ragione che dire ad una ragazza liceale che per lei non c’è posto è esperienza umanamente traumatica. E non c’è certezza «alla Salvini» che non vacilli di fronte alla verità e alla realtà di un volto come quello (anche la Merkel stessa in fondo ha vacillato).

Ma Reem ci documenta una storia di cui non abbiamo piena percezione e consapevolezza. Ed è la storia di immigrati che oggi hanno un profilo anche sociologico molto simile alla media di noi europei. Di persone che hanno aspettative che vanno ben aldilà della semplice sopravvivenza, anche se ora hanno il problema base di trovare il modo di sopravvivere o di scappare da situazioni in cui la vita è messa a repentaglio dalla violenza o dalla povertà.

Il migrante 2015 non è solo un disperato in fuga. È un uomo o una donna in cerca di una realizzazione di se stesso. La percentuale di giovani è molto alta. Hanno a volte livelli di preparazione sorprendenti, se si pensa alle condizioni da cui provengono. Gran parte di loro ha dimestichezza con l’inglese. Bastava aggirarsi nei mezzanini della Stazione Centrale di Milano nelle scorse settimane per rendersene conto: colpiva che persino nel modo di vestirsi si cogliesse una voglia di apparire come tutti, come noi.

Ma c’è un aspetto ancora più dirompente. Ad un certo punto la ragazza ha detto: «Perché volete strapparmi il sogno di studiare con i miei compagni di classe?». È il ricorso alla parola “sogno” che colpisce e ci deve fare riflettere. “Sogno” vuole dire avere una grande desiderio di futuro, vuol dire saper anche in qualche modo immaginarsi questo futuro («con i miei compagni di classe»: cioè integrata, con relazioni che non prevedono muri culturali o identitari). Ma “sogno” è soprattutto indice di un qualcosa che il nostro modo di concepire la vita sembra aver perduto. Lo ha ribadito più volte Papa Francesco (non a caso anche lui è un migrante...). Lo ha detto ai Movimenti popolari in occasione del recente viaggio in Sudamerica. Lo aveva detto incontrando le famiglie a gennaio nelle Filippine: «...per questo vi raccomando che la sera, quando fate l’esame di coscienza, ci sia anche questa domanda: oggi ho sognato il futuro dei miei figli? È tanto importante sognare. Prima di tutto, sognare in una famiglia. Non perdete questa capacità di sognare».

Il sogno è ciò che non ci fa essere prigionieri del fatalismo, degli imperativi dettati dalle necessità e magari anche dalla ragionevolezza. Il sogno apre orizzonti alla realtà che abbiamo davanti. Ci fa andare oltre i confini di quello che ci sembra possibile. Anche noi dobbiamo reimparare a sognare. Ad esempio a sognare un orizzonte in cui ci sia spazio per quelle come Reem. Da questo punto di vista lei è più avanti di noi. E non è affatto meno realista di noi. Perché il realismo che soffoca le aspettative è in verità rassegnazione.

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