Il Vinitaly un successo
geopolitica permettendo

Che il Vinitaly resti una vetrina dell’eccellenza del Belpaese ce ne siamo accorti dalla sfilata di politici, vecchi ma anche nuovi, (quelli a parole nemici delle comparsate) che hanno affollato gli stand veronesi in questi giorni: in tempi di vacche magre per la nostra immagine internazionale, ancora una volta il vino italiano svolge una funzione importantissima, veicolo di qualità assoluta, ma anche punto di incontro capace per qualche ora di mettere tutti d’accordo davanti a un calice di un Barolo strepitoso o un Amarone d’annata.

Il fattore geopolitico quindi, che va a braccetto con quello economico, senza dimenticare quello ludico, espresso così bene quest’anno proprio da un consorzio bergamasco, il Valcalepio, che ha calamitato l’attenzione dei visitatori con i suoi «assaggi emozionali», momenti in cui il vino viene accostato a un’idea, una persona, un luogo e soprattutto un brano musicale, che finisce per diventare colonna sonora, rigorosamente «ad personam», di un rosso vivace o un passito da ricordare. Ma l’edizione numero 52 del Vinitaly con i suoi 13 mila vini, è difficile da contenere in una definizione. Per tanti è semplicemente «l’appuntamento», dove confrontarsi sui temi caldi dell’enologia, stringere rapporti commerciali, esercitare ancora il piacere del gusto, al di là di tutti i condizionamenti di rito. Vinitaly con i suoi 128 mila operatori da 140 Paesi, con il numero dei buyer che continua a crescere (sfondato il muro dei 30 mila), così come il numero degli espositori stranieri lievitati del 25% e presenti nel padiglione «International Wine Hall», vede una corsa binaria e parallela: da un lato la meravigliosa seduzione, magari riveduta e corretta dei classici del vino italiano (cantine storiche, consorzi, movimenti del vino, guide enologiche), dall’altro la corsa inarrestabile alla novità a tutti i costi, non solo innovazione di stile o di prodotto, ma anche nuova frontiera del packaging, modo di presentarsi e di bere da soli o in compagnia. Accanto a queste due eterne sfide, una terza da qualche edizione si sta affacciando con prepotenza sulla ribalta scaligera: invocata da un numero sempre maggiori di «adepti» (alcuni un po’ ideologici) o semplicemente aficionados, è in vertiginosa ascesa l’offerta legata al biologico con le aree di Vivit (Vigne Vignaioli Terroir), la sezione di VinitalyBio e lo spazio Fivi (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti) prese d’assalto in queste ore da un pubblico che si autodefinisce «più consapevole», ma che, la si pensi come si vuole, ha acceso i riflettori su un segmento di mercato nuovo, che non ruba solo clientela a quello tradizionale, ma pesca anche da un pubblico diverso, che fa della sostenibilità una scelta di vita a 360 gradi, applicandone quindi i dettami anche all’enogastronomia.

Tutto questo mentre i venti di guerra fanno capire che nulla è per sempre, e che certi equilibri regolati da un export strepitoso (vale quasi 6 miliardi di euro, +6,2% in un anno) vanno ogni giorno ritarati, senza crogiolarsi troppo in cin cin celebrativi. Se vogliamo infatti trovare un difetto alla nostra offerta enologica questo è legato ai soliti mercati di sbocco, nel senso che, a differenza di competitor come Francia e Spagna, che hanno saputo meglio differenziarsi, l’export italico rimane pericolosamente ancorato ai tre mercati classici, Stati Uniti, Germania e Regno Unito, dove si registra un indice di concentrazione di oltre metà delle vendite. Ecco perché i nuovi contatti intercettati in queste ore soprattutto in Oriente anche dai nostri Valcalepio e Moscato di Scanzo, sono di buon auspicio per una nuova stagione di sviluppo.

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