Il voto stravolto
per regolare i conti

Arrivati a questo punto, forse varrebbe la pena di arrendersi. È fatica sprecata insistere nel deprecare che il referendum sia divenuto solo un pretesto per arrivare ad un regolamento dei conti tra Renzi e le opposizioni. È ancor prima di quando si conoscesse la data di convocazione elettorale che sostenitori del Sì e del No si palleggiano la responsabilità di aver trasformato la prova elettorale in una sorta di ordalia. La colpa originaria dello stravolgimento del voto va messa indubbiamente sul conto del premier. Non gli era sembrato vero di potersi servire un plebiscito, lui arrivato a Palazzo Chigi privo dell’unzione elettorale. Peccato che avesse fatto male i suoi calcoli. Complice l’insoddisfacente ripresa economica, la sua popolarità si è col tempo sgonfiata e lui, anche se in ritardo, doverosamente ne ha preso atto.

Ciò non toglie che il confronto elettorale abbia continuato a sfuggire al merito del referendum. I contendenti si sono passati di mano solo il testimone. Come si poteva pretendere del resto che si facessero sfuggire la ghiotta occasione di far trangugiare al baldo giovane di Rignano la pretesa di ergersi a Gran Rottamatore della politica nazionale? Non si è riusciti a farli deflettere dai loro intenti sino ad oggi, immaginiamoci se si può chiedere loro di cambiare direzione quando sono ormai in dirittura finale. Hanno addirittura già spostato l’attenzione sul dopo voto. Sarà chiaro allora non solo chi l’avrà avuta vinta, ma anche se al vincitore il gioco sia valsa la candela.

Renzi si è già pentito di essersi spinto avventatamente così in là da mettere a repentaglio la sua stessa leadership. Ma lui, rischierà anche molto, ma, se vince, è almeno sicuro di sbancare il tavolo. Non gli parrà vero di essersi liberato in una sola mano sia delle opposizioni che della minoranza interna.

Diverso sarebbe invece il bilancio del fronte del No nel caso, al momento comunque improbabile, di una sconfitta. Salvini, Grillo e compagnia varia si sono evidentemente fatti prendere la mano dalla voglia di far fuori l’inquilino di Palazzo Chigi, visto che non hanno valutato a dovere i costi di un successo del Sì. La minoranza dem dei vari D’Alema e Bersani dovrebbe chiudere letteralmente bottega. Ma una sorte non troppo propizia toccherebbe anche agli altri partiti contrari alla riforma. Salvini sarebbe chiamato a rispondere della scelta fatta di aver sfidato insieme Renzi e Berlusconi col risultato di trovarsi perdente e isolato. Dal canto loro, i Cinquestelle dovrebbero farsi una ragione innanzitutto del fatto di non essersi tenuti stretta l’accoppiata di riforma elettorale e Italicum che rappresenta per loro l’unica condizione per arrivare al governo senza esser costretti a stringere alleanze. Dovrebbero poi trarre l’amara conclusione che nemmeno facendo blocco con tutte le opposizioni sono in grado di vincere. Come potrebbero pensare di riuscirvi in futuro facendo conto sulle loro sole forze, magari non più con una legge maggioritaria ma con una proporzionale? Un vantaggio, anche se magro, lo otterrebbe solo Berlusconi. Potrebbe forse rientrare in gioco per cambiare l’Italicum, ma dalla porta di servizio e con un ruolo ormai marginale.

I conti, è vero, si tirano solo alla fine, ma fin d’ora è legittimo nutrire qualche dubbio sulla convenienza avuta dagli sfidanti a osare tanto.

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