Immigrati, non regge
la spallata di Israele

È bastata qualche ora di concitazione per affondare l’accordo tra il Governo di Israele e l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) affinché 16.250 richiedenti asilo nello Stato ebraico (quasi tutti eritrei e sudanesi) non fossero più deportati in Uganda e Ruanda ma ricollocati in Paesi «sicuri». Il premier Benjamin Netanyahu lo ha annunciato, facendo anche i nomi di Canada, Italia e Germania come Paesi di accoglienza; Italia e Germania hanno smentito; alleati di Governo e oppositori hanno attaccato Netanyahu; e lui ha annullato tutto.

Il navigato Bibi si è autoaffondato: citare Paesi che non erano stati informati e informare poco e tardi gli alleati di Governo sono stati errori fatali. Tutto questo, però, riguarda la politica interna di Israele. Mentre la vicenda, scaduta troppo in fretta dal rango di dramma a quello di burla, ha risvolti che riguardano tutti. Molti me li ha spiegati Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa. «L’accordo», dice, «non menzionava alcun Paese, neppure l’Italia, e sarebbe stato strano se lo avesse fatto, perché i Paesi di accoglienza erano ancora da identificare. Poi certo, noi sappiamo, perché è il nostro mestiere saperlo, che alcuni Paesi mettono a disposizione ogni anno alcune migliaia di posti per questi reinsediamenti, per esempio il Canada. Ma è un altro discorso. Italia e Germania sono state tirate in ballo, credo, perché una parte minima di quei rifugiati ha parenti stretti in questi Paesi, e quindi si sarebbe ipotizzato un ricongiungimento familiare».

Proviamo quindi a riassumere. Netanyahu non poteva indicare alcuna destinazione. Ma il ministero degli Esteri italiano e il ministero degli Interni tedesco, che hanno negato l’esistenza di accordi con Israele, hanno smentito l’ovvio, perché l’intesa avrebbe dovuto essere raggiunta, semmai, con l’Unhcr, ovvero con l’Onu. Secondo: l’accordo, poi naufragato, era stato raggiunto dopo che il Governo di Israele aveva annunciato una campagna di deportazioni che aveva indignato la stessa opinione pubblica dello Stato ebraico. E su questo ci aiuta di nuovo la Sami: «Chi varca una frontiera per presentare domanda d’asilo non commette alcun reato, e lo Stato a cui si presenta ha l’obbligo di riceverlo. È una norma del diritto internazionale che fu varata dopo il disastro della Seconda guerra mondiale, quando ad aver bisogno di accoglienza eravamo soprattutto noi europei». Quindi, in pratica, è successo questo: Netanyahu minaccia i richiedenti asilo, l’Unhcr si preoccupa e trova una soluzione. La cosa aiuta i migranti, certo, ma nello stesso tempo toglie le castagne dal fuoco a Netanyahu, che voleva cacciare tutti. Bibi avrebbe fatto bingo se non fosse che l’accordo prevedeva, anche, il permesso di soggiorno temporaneo per altri 16.250 richiedenti asilo, ed è su questo che la destra della destra israeliana lo ha impallinato.

Ora si prospetta la deportazione per tutti i rifugiati che si trovano in Israele. L’intera vicenda, quindi, dimostra che in tema di spostamenti di popolazione vince chi fa la voce più grossa. Come in Europa, dove fior di Paesi membri della Ue come Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, che di migranti ne hanno punto o pochi, rifiutano di accogliere anche solo poche decine di rifugiati, pur ricevendo dalla stessa Ue miliardi in fondi strutturali. Dove anche l’ultimo piripicchio costruisce il suo bel muro. Dove tutti cercano solo di scaricare il problema sulle spalle di qualcun altro. Dove chiunque ha una sua politica, il che ovviamente si traduce in nessuna politica.

Perché oggi, nel mondo, ci sono 65 milioni di sfollati e rifugiati, cacciati dalle loro case e dalle loro terre da guerre, disastri ambientali e altre calamità, che si aggirano in cerca di un varco verso un mondo migliore. Non illudiamoci, non spariranno. E senza una politica comune, di livello almeno europeo, torneranno a bussare. La porta, in questi anni, è stata l’Italia. Domani sarà un’altra.

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