Individui liberi e soli
il conto non torna

«Nel carrozzone culturale dell’Occidente - scrive in uno dei suoi saggi il teologo Pierangelo Sequeri - si pretende che riusciamo a parlare contemporaneamente, e senza batter ciglio, due linguaggi contrari. Uno dice che, se vogliamo essere veramente umani, dobbiamo cercare di essere totalmente liberi; l’altro ci dice che se vogliamo essere razionali, dobbiamo accettare di essere totalmente condizionati (in modo diretto o indiretto)». Più che liquidi i paradigmi mentali di questo occidentalis karma sembrano dislessici. Nella contraddizione naturalmente il sistema ha imparato a cavarsela persino con una certa disinvoltura.

È sintomatico che oggi nei templi della scienza e nelle sacrestie della tecnica ci si accanisca a normalizzare l’umano entro i confini dell’accidentale biochimico, mentre nei santuari del mercato e nei riti del consumo tutto funzioni al contrario toccando il tasto del desiderio e della libertà (chi ci mette i soldi va sempre dritto a come è fatto l’uomo, non a come viene raccontato). Il destinatario di questo bilinguismo epocale è la spaesata coscienza dell’essere umano rigorosamente pensato come individuo. L’originario della condizione umana oggi è l’individuo, non i suoi legami. Come singoli si è clienti più affidabili per la città/mercato del tardo capitalismo. I legami sono un gran perdita di tempo e compromettono gli affari. Dei tre pilastri su cui si è illuministicamente costruito il nostro edificio civile, liberté, égalité, fraternité, sui primi due abbiamo scommesso fino allo spasimo. Il terzo sapeva troppo di chiesa per avere realmente un futuro. Siamo liberi e uguali. Ma insensibili alle ragioni della fraternità. Questa grosso modo è la dogmatica di base della nuova ortodossia civile, la cui pressione di conformità non è meno coercitiva di quella religione ideologizzata a cui si deve la sporca faccenda del caso Galileo. Essa prevede per sua propria struttura il fatto di subordinare il legame sociale e il bene comune alle ragioni del diritto individuale. Prima l’individuo e i suoi diritti. Poi la società e i suoi problemi.

Questo primato del principio individuale, assimilato come euforia libertaria nel patrimonio di base nel senso comune, non manca naturalmente di produrre ricadute etiche che gli studiosi hanno prontamente battezzato in molti modi e sotto svariati aspetti, dalla solitudine di massa alle nuove paure, dalle passioni tristi alla morte del prossimo, provvedendo con dovizia diagnostica a mettere in luce la malinconia planetaria che tutto questo semina nella vita di individui lasciati soli con le loro sterminate libertà. Ma fin qui tutto resta incasellato in quel flusso di lamentazioni intellettuali che il distacco del realismo politico e il dormiveglia del senso comune riescono sempre a scansare con il necessario sarcasmo, buttando tutto nel cestino del trascurabile e moraleggiante pensiero apocalittico.

Ma quando da ricaduta etica la questione comincia ad assumere la consistenza del costo sociale, in termini di depressi da curare, servizi da moltiplicare, cure supplementari da istituire, reti relazionali aggiuntive da mettere in piedi, tutta roba che costa, allora anche il cinismo della macchina politica sente la necessità di muoversi, allertata anche da quegli squarci demografici che rivelano le nostre società ormai composte per il 50% da gente che vive sola e per la quale la creatività del formalese ha dovuto coniare la divertente definizione di «famiglie monopersonali ». La misura annunciata da Theresa May, successore di quella Thacher secondo la quale non esiste la società ma solo gli individui, che ipotizza di istituire un «ministero della solitudine», dovrebbe risuonare come qualcosa di altamente emblematico. È certamente il bisogno di prendersi formalmente in carico la consistenza sociale di nuovi bisogni. Ma è soprattutto l’ammissione ufficiale e in qualche modo epocale di un profondo scompenso del sistema, ormai palese e manifesto: i limiti ormai patologici di una costruzione sociale che garantisce condizioni di solitudine per chi le sceglie, ma le impone anche a chi non le cerca, come effetto di un ingranaggio sociale che lavora, con sistematica attitudine e con premeditata precisione, a depotenziare le forze del legame sociale. Producendo forme di umanità appartata o marginale che alimentano depressioni e generano ingiustizie. Non saprei dire se bisogna decrescere per essere più felici, se bisogna decapitalizzarsi per diventare più equi, se bisogna demercificarsi per essere più umani. Ma di sicuro esiste qualche conto che non torna in questa partita. Qualcosa a monte va riscritto. E questo annuncio ne è un barlume di consapevolezza.

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