Italia, lotta all’Isis
Strada tracciata

«Fuori l’islam da qui». Non è dato sapere quale urgenza abbia ispirato l’autore della scritta sul muro, se una minaccia incombente nel piccolo paese dell’hinterland bergamasco dove è stata vergata, o una preoccupazione generalizzata verso la grande e composita comunità religiosa, 1,3 miliardi di fedeli nel mondo e 1.400 anni di storia. Propendiamo per la seconda ipotesi. Fuori (in questo caso dal cinema) sono andati invece gli spettatori di un film a Torino, la sera di Capodanno: lo scambio di messaggi telefonici e di gesti fra i componenti di una famiglia marocchina, di cui due sordomuti, seduta in posti distanti, è stato frainteso come il via ad un attacco terroristico in sala.

L’evidenza e le cronache dicono di un clima inquieto, dopo la serie di attentati rivendicati dall’Isis che hanno colpito l’Europa. Il sedicente Stato islamico è una milizia assassina mossa da un’ideologia di conquista definita da un vertice che ha studiato la nostra società, i suoi punti di forza e le sue fragilità. Il terrorismo è il mezzo per una finalità chiara, esplicitata nel libro, «Gestione della barbarie», riferimento dottrinario degli jihadisti, nel quale si leggono passaggi che ci dovremmo fissare nella memoria: «L’unico vero ostacolo sulla via dell’istituzione del dominio di Allah sul mondo intero è costituito da quei musulmani che si concedono delle debolezze e che invece dovrebbero condurre il jihad con il massimo della forza e della violenza».

Nel testo viene esplicitato bene «come bisogna agire - rilevava L’Osservatore Romano, che ne dava conto alcuni mesi fa in solitudine mediatica - per polarizzare le differenze tra jihadisti e islamici moderati, radicalizzando alcuni di questi e, soprattutto, per alimentare il ciclo delle violenze e delle ritorsioni con un conseguente incremento del caos: più chiaro di così impossibile». In un altro passaggio del manifesto jihadista è scritto: «Lo schiacciante potere militare di una superpotenza può diventare una maledizione se la sua coesione sociale collassa». «Nella logica della propaganda dei fanatici - concludeva L’Osservatore Romano - colpire una qualsiasi città occidentale risulta così incisivo, perché genera un livello di odio maggiore. Distruggere ogni possibilità di convivenza civile fra culture e religioni è il fine ultimo del jihadismo. Che lo afferma chiaramente. Basta leggere». Già, basta leggere.

Se questo è l’obiettivo, per noi è anche la traccia per definire le azioni di contrasto e vincere la guerra dichiarata dall’Isis, sul piano internazionale e su quello nazionale. La premessa necessaria è l’abbandono dell’approccio che ci porta a leggere la realtà per categorie umane (gli islamici in quanto tali) e non attraverso i fenomeni che dobbiamo contrastare. Le categorie sono profondamente ingiuste (generano stigmi sulle appartenenze, in questo caso religiose), pericolose e inefficaci: ci fanno perdere di vista l’obiettivo e intraprendere direzioni di marcia che ci portano fuori strada. L’Italia non ha subìto ancora attacchi terroristici per una serie di ragioni. L’azione delle forze dell’ordine e dell’intelligence ha permesso di individuare e fermare preventivamente affiliati all’Isis che pianificavano attentati, persone contigue a «soldati» dello Stato islamico (il caso più recente è di venerdì scorso: un maghrebino soggiornante nel Centro di identificazione ed espulsione di Torino, con alle spalle denunce per rapina e lesioni aggravate, e in tempi recenti legami con la rete jihadista di cui faceva parte l’attentatore di Berlino) o predicatori fanatici. Inoltre al nostro Paese finora gli ideologi dello Stato islamico hanno riservato soprattutto lo status di terra di transito e di base logistica, anche per l’assenza di periferie densamente abitate da comunità islamiche (presenti ad esempio in Francia, Belgio o Gran Bretagna) nelle quali trovare protezione. Ma queste constatazioni non ci esimono dai rischi, al punto che recentemente il capo della Polizia Franco Gabrielli ha precisato che «anche l’Italia avrà il suo prezzo da pagare».

L’obiettivo non è una categoria, ma un fenomeno. Va in questa direzione il lavoro compiuto dalla Commissione di studio sul fenomeno (appunto) dell’estremismo jihadista, composta da esperti della materia e forze dell’ordine. L’esito è stato presentato a Palazzo Chigi, con l’obiettivo di istituire un Centro nazionale sulla radicalizzazione con venti sedi regionali, sul modello di realtà già operative in altri Paesi europei. Coinvolgendo le comunità islamiche (rappresentano il 2% della popolazione residente in Italia) sul territorio per isolare e denunciare (è già successo) i predicatori d’odio e le affiliazioni all’Isis, circoscrivendo il fenomeno.

L’obiettivo non è quello di costruire un islam europeo, fine già fallito in Francia. Quell’islam c’è già, ma non lo conosciamo: è nei Balcani, grande regione che fatichiamo ancora ad accettare come componente decisiva della storia del Vecchio continente e della sua geografia, dove vivono 8 milioni e mezzo di musulmani, un terzo di quelli residenti in Europa. Quelle comunità da anni hanno ingaggiato la lotta (culturale e di polizia) all’estremismo jihadista, che vi mise radici ai tempi della guerra in Bosnia, sfruttando il vuoto lasciato dall’Europa occidentale, sorda agli appelli che arrivavano dalla Sarajevo vigliaccamente assediata dall’esercito-serbo bosniaco. Il mandante politico di quell’assedio era la Serbia di Slobodan Milosevic: giustificò le carneficine (ricordate Srebrenica? Ottomila musulmani trucidati in due giorni nel luglio 1995) con lo scontro di civiltà fra cristiani-ortodossi e musulmani (a proposito di categorie generalizzanti). Una falsa lettura nella quale cascarono anche politici dell’Europa occidentale. Nello squarcio degli assedi e delle pulizie etniche si infilò l’estremismo jihadista. Allora distratti, pensavamo che quel conflitto non ci riguardasse. E invece...

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