La forzatura di Salvini
E il Pd resta a guardare

L’impressione è che nel centrodestra la situazione sia sfuggita di mano. L’accelerazione improvvisa di Matteo Salvini ha portato la coalizione ad un passo dalla disintegrazione: proporre alla presidenza del Senato una parlamentare di Forza Italia, Anna Maria Bernini, senza neanche dirlo prima a Berlusconi e in contrapposizione con la candidatura ufficiale di Paolo Romani, quella stessa che i Cinque Stelle non avrebbero mai votato, è risultato essere un affronto intollerabile per il Cavaliere. La cui reazione infatti è stata di una durezza inusuale: ha parlato di «atto ostile», perpetrato «a freddo» e che porta «alla rottura della coalizione» a solo scopo di arrivare ad un governo tra leghisti e grillini. Sta di fatto che Di Maio, dopo qualche ora di riflessione, ha dichiarato la propria disponibilità a votare la Bernini, e questo ha chiuso il cerchio.

Quando avrete questo giornale tra le mani sia la Camera che il Senato saranno impegnate in un’altra votazione progressivamente a quorum sempre più basso. Ma al quarto scrutinio il Senato sarà posto di fronte ad una scelta netta: secondo il regolamento si deve andare infatti al ballottaggio. E quali saranno i candidati? Romani o la Bernini? O magari entrambi, l’uno contro l’altro? O nessuno dei due? Lo sapremo solo dopo una intera notte di riunioni e conciliaboli. Ma una cosa è chiarissima sin da subito: la lotta per la leadership del centrodestra è senza esclusione di colpi, passa per l’elezione dei presidenti per puntare alla formazione del governo. Berlusconi non può perdere la faccia di fronte alla provocazione di Salvini, e il capo leghista si è ormai spinto troppo avanti per potersi permettere un passo indietro. Salvini con la mossa a sorpresa di candidare la senatrice Bernini ha voluto forzare la mano a Berlusconi, fermissimo nel sostenere una candidatura, quella di Romani, che si frapponeva in modo insuperabile al dialogo con i Cinque Stelle. I quali, per soprammercato, avevano anche rifiutato di incontrare il Cavaliere non riconoscendogli alcuna legittimazione politica. Viceversa Berlusconi, insistendo proprio su Romani, ha mirato a mettere alla prova Salvini e la sua fedeltà alla coalizione. Le due tattiche erano troppo divergenti e rivestivano quel carattere muscolare che di per sé impedisce o rende molto complicato giungere ad un compromesso.

Resta il dubbio sulle reali finalità di Salvini: forzare la mano a Berlusconi è nelle logica delle cose che abbiamo visto svilupparsi da lungo tempo, ma il leader del Carroccio non può non considerare che rompere la coalizione di centrodestra lo riporta alla condizione di leader di un partito del 17-18 per cento, circa la metà dei Cinque Stelle: se la Lega dovesse fare un governo con il M5S, dovrebbe ricavarsi appena il ruolo di portatore d’acqua. Ma poiché le vesti di alleato marginale sono poco consone al carattere e alle ambizioni di Salvini, sarebbe più logico pensarlo nel ruolo del Brigante di Radicofani, insomma come faceva Craxi con la Dc: esercitare su ogni decisione un potere di ricatto. La conseguenza sarebbe però un’alleanza fragile e rissosa, un governo debole e poco efficace. Qualcosa insomma che si potrebbe pagare molto caro alle prossime elezioni politiche.

In tutto ciò il Partito democratico osserva la scena sperando che il fiume porti prima o poi i cadaveri dei vincitori, sconfitti dalla loro mezza vittoria elettorale. I prossimi giorni ci diranno se una simile linea, dettata da Renzi subito dopo le elezioni e finora non contraddetta, sia davvero produttiva o non condanni invece il Pd alla marginalità. Ma questo si saprà solo a fine partita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA