La lezione dei sindaci
nella terra che trema

L’emergenza terremoto e l’irrisolta questione dei migranti hanno rimesso al centro del dibattito pubblico italiano il ruolo del sindaco. Primo cittadino, ma «primus inter pares» condividendo con la sua gente la vita nei luoghi amministrati. Le cronache dalle zone del sisma hanno portato nelle nostre case volti e nomi sconosciuti di rappresentanti di piccoli enti locali impegnati nel lanciare appelli al governo e alle istituzioni centrali, ma anche a dare una prima risposta alle urgenze e alle paure dei cittadini, fino a doverli convincere a lasciare ciò che avevano di molto caro, la propria abitazione, per accettare di trasferirsi altrove.

Il ruolo del sindaco richiede quindi capacità gestionali ma anche di mediazione, quando non addirittura psicologiche. Il compito in questi anni di drastici tagli della spesa pubblica - anche su capitoli decisivi come il sociale - è diventato più gravoso e contraddittorio: i primi cittadini infatti devono operare con risorse più scarse ma sono i primi a dover fronteggiare il malumore della popolazione che chiede risposte ai propri problemi. È necessaria quindi anche una buona dose di ingegno e di pazienza, pure per fronteggiare la burocrazia e i suoi tempi. Le cronache dalle zone del sisma ci hanno informato sulle procedure per le ordinanze urgenti di evacuazione e di inagibilità degli edifici. Le leggi determinano certe prassi ma non i mezzi per metterle in pratica in tempi ragionevoli (nel caso delle ordinanze citate servirebbero migliaia di tecnici, che non ci sono, per valutare la loro fondatezza). Un deficit non solo nelle situazioni di emergenza ma anche in quelle ordinarie.

L’Italia del resto è affetta da una cultura che pretende di risolvere i problemi con nuove norme. Un esempio calzante è la lotta alla corruzione: la burocratizzazione e la lentezza dei processi decisionali danno potere a figure dell’apparato amministrativo che altrimenti rappresenterebbero solo un anello della catena. Un potere che può degenerare nel ricatto della concussione. Altre norme cavillose invece rischiano di inguaiare in inchieste anche i primi cittadini che agiscono in buona fede.

Nell’Italia degli 8 mila Comuni, agevolare e sostenere il ruolo del sindaco dovrebbe essere una priorità. L’eliminazione delle Province (maldestra e populista nel pretendere di cancellare gli enti senza distinguere rispetto alla loro utilità in certe aree, come nella Bergamasca con i suoi 242 Comuni) e la riduzione dei poteri delle Regioni prevista nella riforma costituzionale del governo Renzi, espongono ancora di più i primi cittadini nel ruolo di tutori dei territori. E proprio i territori sono un nodo decisivo nel passaggio storico che stiamo vivendo, diventando un ammortizzatore degli effetti della globalizzazione che ha generato più ricchezza ma mal distribuita con conseguenze sociali pesanti per gli ultimi della catena.

E qui entra in gioco anche la questione delle migrazioni. L’attuale modello di accoglienza in Italia mostra le corde: le procedure non sono più adeguate ai numeri. Matteo Biffoni, sindaco di Prato e responsabile Anci (l’associazione dei Comuni italiani) all’immigrazione, ha chiesto che i primi cittadini vengano coinvolti nei passaggi decisionali sulla distribuzione dei migranti da accogliere, correggendo il meccanismo che permette di scavalcare i responsabili delle amministrazioni locali attraverso il potere dei prefetti. Certo c’è un rischio. La prevalenza di un eventuale diritto di veto da parte dei sindaci, a discapito anche di quelli che invece non lo eserciterebbero (in parte è ciò che accade già oggi con le procedure in vigore). Biffoni aveva avanzato la sua richiesta a commento delle truci vicende di Goro e Gorino, i due paesi del Ferrarese dove la rivolta di alcuni residenti ha bloccato l’accoglienza di 12 giovani donne e di 8 bambini africani richiedenti asilo. In quella vicenda pesò anche la mancata comunicazione tra il prefetto e il sindaco.

Le cronache del terremoto hanno fatto emergere l’Italia dei piccoli Comuni (ben 300 quelli danneggiati), con le sue fragilità ma anche con grandi potenzialità non sfruttate a sufficienza. Non a caso da quelle terre ora infrante dal sisma si leva un appello perché la ricostruzione rappresenti un’occasione di rilancio economico e sociale di luoghi che già soffrivano di isolamento infrastrutturale di spopolamento. Terre ricche di storia e di arte ma anche abitate da popolazioni robuste, già pronte a rimboccarsi le maniche per ripartire. L’Italia dei Comuni si incrocia con quella della piccola e media impresa, spesso familiare, vitale per la nostra economia. Solo nel «cratere» del sisma operano 10 mila aziende con queste caratteristiche. «Siamo in ginocchio - ha detto un albergatore di Norcia - ma dobbiamo inventarci qualcosa per cui valga la pena alzarsi ogni mattina». È un richiamo dell’Italia che non si ripiega sulle macerie.

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