La pace impossibile
dei nemici amici

Sfida Renzi-Cgil. La piazza contro la Leopolda. Qui si propone, là si protesta. Sono i titoli assai eloquenti di alcuni quotidiani di ieri che mettono bene in risalto il segno politico opposto espresso dalla kermesse in corso a Firenze da Renzi e dalla manifestazione convocata nella capitale dalla Camusso. È difficile in effetti immaginare una situazione altrettanto efficace di quella realizzatasi con i due raduni nell’evidenziare la divisione apertasi nel popolo di sinistra, e segnatamente nel maggior partito di sinistra.

Non s’era mai visto la maggiore organizzazione sindacale del Paese mobilitarsi contro il governo espresso dal partito per cui la gran parte dei suoi aderenti vota. Non s’era mai visto nemmeno che un segretario di partito organizzasse una manifestazione politica senza l’egida della sua «ditta». Del resto, non s’era nemmeno visto che un capo partito avesse l’ardire di accumulare nella sua persona anche la carica di presidente del Consiglio. Ci aveva provato più di cinquant’anni fa il «cavallo di razza» democristiano Amintore Fanfani e mal gliene incolse. Perse dubito e simultaneamente l’una e l’altra carica.

Tutto questo non s’era mai visto, ma soprattutto non aveva mai immaginato che potesse venisse attuato dalla propria parte politica la sinistra ex comunista. La sua è sempre stata una cultura favorevole al parlamentarismo e al ruolo protagonista dei partiti, contrarissima al rafforzamento del potere esecutivo, convinta che il compimento della democrazia si identificasse con un governo della cosiddetta «solidarietà nazionale», e non dell’alternanza. Esattamente il contrario di quel che persegue senza occultamenti ipocriti Renzi. Personalizzazione della leadership, mediatizzazione della comunicazione politica, rottamazione di tutto il bagaglio culturale e ideologico della tradizione comunista, scavalco a piè pari di tutte le rappresentanze di interessi (che si chiamino sindacato, Confindustria o associazioni di categoria), rapporto diretto con il cittadino elettore: sono queste le sue linee guida.

A dividere le due manifestazioni di ieri non c’è stato, quindi, solo il merito di un provvedimento governativo, pur importante, come il Jobs act. Ci sono state due culture alternative che si traducono in due proposte politiche platealmente in contrasto. Non c’è aspetto politico su cui non si riscontri un’aperta divergenza di idee. Il nuovo segretario del Pd non fa mistero che vuole farla finita col «partito della classe operaia», e pure con «il partito dei lavoratori» di ascendenza marxista o comunque classista. Parla di «partito degli italiani» o di «partito della nazione», socialmente interclassista e politicamente centrista. Punta diritto allo smantellamento di alcuni punti qualificanti dell’impianto istituzionale esistente togliendo di mezzo il bicameralismo e il proporzionalismo, al pensionamento dei partiti organizzati sulla militanza degli iscritti, al superamento del welfare vecchia maniera, non disdegnando poi la conquista dei moderati.

C’è quanto basta ed avanza per attizzare un moto di ripulsa nella sinistra affezionata alla sua cultura tradizionale che, non a caso, considera in cuor suo l’ex boy scout un intruso, se non apertamente un infiltrato del campo nemico. Nessuno dei due fronti Nessuno dei due fronti si dichiara nemico dell’altro, ma sarà difficile che essi possano convivere ancora a lungo senza farsi la guerra.

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