La panchina lunga
pronta per il dopo elezioni

C’è un partito che non è sceso in campo per il 4 marzo, ma che il giorno dopo potrebbe essere al centro di tutte le attenzioni. È il partito trasversale di quelli che non si sono presentati, hanno fatto un passo indietro e costituiscono per il dopo elezioni una sorta di variegata «panchina lunga», a disposizione delle scelte difficili da fare dopo un risultato che tutti questi personaggi danno implicitamente per scontato: la mancanza di una maggioranza.

Cominciò Alfano, ricordate? Un posticino poteva forse ricavarlo, nelle pieghe del Rosatellum, ma si è tolto di mezzo. Lo stesso ha fatto il 5Stelle Di Battista, che avrebbe certamente preso alle parlamentarie ben più di quei poco plebiscitari 390 voti rimediati dal «capo politico» Di Maio, a supporto della sua candidatura a premier. Terzo colpo di scena quello di Roberto Maroni, sceso dall’ascensore di Palazzo Lombardia perché «stanchino», avrebbe detto Grillo. Ma l’elenco non è finito. In casa centrosinistra il grande assente è Carlo Calenda, che non ha voluto capitalizzare la stima crescente di cui è stato circondato.

Accanto a queste rinunce esplicite, in queste settimane abbiamo anche registrato alcune candidature pro-memoria, dei «ci sono anch’io». Caso chiarissimo quello di Romano Prodi, con una imprevista e tutti dicono strumentale dichiarazione di voto a favore di Renzi che ha il significato di ricordare che forse un ponte con ciò che c’è a sinistra del Pd può essere gettato, dalle parti di Bologna. Altro caso parallelo, quello di Gianni Letta per il centrodestra, esplicitato dalla critica per la formazione delle liste relative. Infine, ci sono personalità presenti solo alle Regionali, ma su cui i rispettivi partiti potrebbero scommettere nella prospettiva del dopo, per nuove maggioranze interne. È chiaro infatti che nell’ipotesi di una sconfitta particolarmente dura, sarebbe difficile la tenuta post voto di un Renzi e ancor più di un Di Maio, che ha forzato troppo in questa fase le aspettative della sua ascesa. Si tratta di due candidati presidenti, Roberta Lombardi nel Lazio e Giorgio Gori in Lombardia. Indipendentemente dal loro risultato e persino in caso di sconfitta, se ben gestita, potrebbero recitare un ruolo nella prima fila dei rispettivi partiti dopo il 4 marzo.

Di alcuni dei personaggi citati si può comunque dire che queste candidature non dichiarate sono paradossalmente più consistenti di molti sedicenti presidenti del Consiglio di cui si parlerà fino alle elezioni: Renzi, Di Maio, Tajani, e ancor meno Salvini e Meloni, tre su cinque autoproclamatisi tali persino sui manifesti elettorali. Dipende tutto da dove il pendolo elettorale si fermerà, dopo aver certificato che nessuna coalizione ha la maggioranza e che anche le coalizioni improbabili di cui si parla in queste settimane non avranno basi numeriche.

A seconda del risultato più o meno positivo del proprio schieramento di provenienza, è abbastanza facile intuire che personaggi come Maroni e Letta per il centrodestra, Calenda o Prodi per il centrosinistra potranno attirare l’attenzione. Anche quella del capo dello Stato, che in definitiva cercherà di preservare una continuità istituzionale auspicando ovviamente una nuova legge elettorale più efficace dell’attuale. Infine, se sarà troppo devastato il panorama dei partiti, al punto addirittura da mandare negli spogliatoi sia i giocatori in campo che quelli in panchina, ci sarà comunque un’ultima spiaggia. In definitiva, un presidente del Consiglio già c’è, e si chiama Paolo Gentiloni. Da Palazzo Chigi andrà via rapidamente solo se tutte queste ipotesi saranno spazzate vie dalla vittoria di qualcuno sopra il 40%. Ma è prevedibile?

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