La rivoluzione
del commercio

Il manifesto è apparso al culmine di viale Vittorio Emanuele. L’ha fatto affiggere un negoziante di Città Alta e il messaggio, variamente declinato, è chiaro: quando comprate on line pensate anche alla realtà (intesa come servizio, professionalità e calore umano, ancora prima delle difficoltà) delle botteghe, impegnate in una sorta di guerra di resistenza contro il nuovo e il grosso che avanza, il commercio on line e i monomarca, per tacere dei centri commerciali. Fermo restando che i vari Amazon e Alibaba sono soprattutto competitor delle grandi cattedrali del commercio, come confermato dalla crisi dei mall negli Usa.

Fenomeno che ha investito per ora quelli di prima generazione, ma gli esperti del settore sono pronti a giurare che a breve si ripeterà in Europa: in questo senso ampliamenti come quello recente di Oriocenter vanno interpretati non solo come un’estensione quantitativa, ma anche diversificazione qualitativa dell’offerta. E rinnovamento.

Il problema dei piccoli negozi, o botteghe che dir si voglia, è centrale nel tessuto economico delle nostre comunità e una difesa aprioristica della loro natura sociale non basta purtroppo a garantirne la presenza e, soprattutto, sopravvivenza. Piccolo è sicuramente bello, vicino al cliente e in grado di dare qualcosa in più, ma purtroppo ormai non è garanzia di successo. Lo conferma la recente storia del centro di Bergamo, sempre più simile a quella di tante città europee: una teoria di catene monomarca - spesso straniere - e insegne storiche che tirano giù la saracinesca. Una Spoon River: negozi anche prestigiosi falcidiati sì dalla crisi ma soprattutto dal cambiamento. Colpa dei centri commerciali? Anche, ma non solo, perché questi ultimi sono a loro volta nel mirino di un commercio on line sempre più aggressivo, dove realtà come Amazon sono sempre meno prevedibili e sempre più determinanti per l’intera filiera. Quando i re dell’online hanno ipotizzato di dare vita ad una propria società per la consegna dei pacchi, Ups è finita secca distesa a Wall Street nel giro di pochi minuti, per capirci. E le nuove sfide del colosso di Jeff Bezos si stanno facendo sempre più raffinate: farmaci senza ricetta e cibo bio, come confermato dalla recente acquisizione di Whole Foods.

E chi pensa che gli scenari internazionali non abbiano ricadute su via XX Settembre potrebbe sbagliarsi. Di grosso. Un esempio illuminante? La discesa in campo di un colosso come Carrefour nel centro di Bergamo con il suo format Express: un piccolo supermercato ma in centro, sulla falsariga di quelli (chi si ricorda Balduzzi sul viale?) esistenti 20-30 anni. Un modello da anni sviluppato nel Regno Unito da Tesco: come dire che il negozio di vicinato lo fa la grande catena, ed è un completo rovesciamento di paradigma che ci fa capire che la realtà italiana ha sì una storia diversa dalle altre, ma il presente è terribilmente uguale in uno scenario sempre più globalizzato. Che piaccia o meno.

Luca Tamini, docente al Politecnico e profondo conoscitore del tema, ha più volte usato la parola «alleanza» per delineare l’orizzonte del piccolo commercio nei centri storici: un invito a non giocare in difesa ma cercare nuovi format e sfruttare semmai l’effetto-traino delle grandi catene che portano gente. E che di stare barricate nei centri commerciali, di nuova o vecchia generazione che siano, non ne vogliono sapere: prova ne è il fatto che molte di loro stanno sbarcando (o lo faranno) nelle vie dello shopping. Luoghi che comunque mantengono un’attrattività e un fascino superiore a qualsivoglia mall: fattori che non possono essere liquidati con una presunta assenza (o mancata gratuità) di parcheggi che giocherebbe a favore delle grandi strutture dell’hinterland. Anche perché i numeri dimostrano che di posti per la sosta a contorno del centro ci sono, il problema è piuttosto come usarli: in questo senso il tema del convenzionamento con i silos è ancora lì sospeso, tutto da declinare.

E attenzione, non solo le grandi catene monomarca guardano ai centri storici, ma lo stanno facendo con nuovi format: il caso di Ikea che sta sperimentando piccoli punti vendita in diverse città europee è emblematico, ma quello più clamoroso è Decathlon in piazza Castello a Milano, negozio dal fatturato boom, pare tra i più importanti della catena francese. Il perché è presto detto: per resistere alla concorrenza sempre più aggressiva dello shopping 2.0 via click bisogna conquistare nuovi spazi, non necessariamente a discapito del piccolo commercio. E i nuovi spazi sono paradossalmente quelli più tradizionali, quella strada principale delle nostre città dove la gente passeggia e le auto restano ai margini: del resto ci sarà un motivo se un colosso come Starbucks dopo aver preparato lo sbarco in Italia per anni abbia scelto piazza Cordusio a Milano e non uno dei tanti centri commerciali dell’hinterland.

Un quadro dove il piccolo commercio va assolutamente difeso, ma può esistere se non si limita a resistere: un ruolo chiave a Bergamo lo giocherà il Duc, il Distretto urbano del commercio dove queste realtà dovranno avere necessariamente sempre più peso. Distretti che all’estero sono fondamentali per garantire equilibrio e sviluppo dei centri in rapporto con i grandi marchi: prova ne è il fatto che talvolta sono proprio questi ultimi a «prestare» per un tempo determinato i loro manager. Perché in questo mondo del commercio che corre a 1.000 all’ora c’è un rischio: piccolo è bello, ma purtroppo potrebbe non bastare più.

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